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Tiàwuk: alla scoperta di un nuovo pianeta. Il viaggio di Gabriele Cecconi tra realtà e finzione

Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione…

Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione Istanti, il fotografo ci ha raccontato della sua esperienza in Kuwait e di come sia maturata l’idea di creare un progetto fotografico in grado di restituire la complessità di un mondo “distopico” e di un Paese caratterizzato da un modello islamico contrapposto ad un sistema capitalista.

“Ho conosciuto il Kuwait tramite una minoranza etnica e così è stato possibile raccontare il mondo arabo andando oltre gli stereotipi che vengono attribuiti dal mondo occidentale. Ero interessato a come le persone vivono in un ambiente dove da un punto di vista estetico realtà e finzione sono due facce della stessa medaglia”.

L’esperienza in Kuwait ha consentito a Gabriele di documentare un Paese dalle molteplici contraddizioni, dove gli eccessi e la ricchezza economica lo caratterizzano. Ne sono testimonianza la raccolta di foto che ci ha presentato.

“Sono stato ospitato da un ricco kuwatiano che nella sua sfarzosissima villa teneva un ghepardo come fosse un gattino. Lì per lì ho avuto anche un po’ di paura non essendomi mai trovato così vicino un animale del genere”.

Il progetto di Gabriele ci ha permesso di “viaggiare” attraverso il suo approccio e linguaggio fotografico in un Paese così diverso e così surreale che solo i sui scatti ne colgono la complessità e ne attribuisco un profondo significato che lascia riflettere sulla natura umana e sulla sua fragilità interiore.

Kuwait City, Emirate of Kuwait, 13/03/2019 – A cheetah is seen inside a private house. After raising a lion for 3 years, the owners now takes care of two cheetahs that roam freely around the living room of his house. Despite it’s now illegal to own wild animals, there is still a lot of Kuwaiti citizens who. want them as a form of obstentation and status. Ph Gabriele Cecconi

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Community Action: partecipare al cambiamento

Come partecipare al cambiamento di una comunità? È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra…

Come partecipare al cambiamento di una comunità?

È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra le diverse attività e azioni da intraprendere.

Nel mio caso, grazie alla partecipazione al progetto europeo DREAMM. L’esperienza mi sta facendo scoprire la bellezza e la complessità di lavorare una comunità diversa che lavora per un obiettivo comune: una società più inclusiva e multiculturale.

L’ultimo task all’ordine del giorno è la creazione di uno spazio comune, interculturale, accogliente, dinamico ed aperto a tutti.

La call to action per la creazione di un Community Space innovativo mira a realizzare lo spazio partendo dai bisogni e dalle idee della popolazione locale.

Per ascoltare le voci della comunità locale sono pensati diversi appuntamenti, per favorire il coinvolgimento e la partecipazione attiva della popolazione della zona.

Il primo evento sarà Mercoledì 20 Aprile 2022, alle ore 16.00 presso l’Aula V del Dipartimento di Fissuf, Piazza Giuseppe Ermini 1, Perugia.

Curioso di essere dei nostri?

Be the change you wish to see in the world!

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Vorrei poter tornare a Casa…

C’è una poesia di Gianni Rodari che risuona spesso nella mia testa. Si intitola “Il treno degli emigranti“. Pochi versetti, in cui è rinchiuso tutto quello che un emigrante porta…

C’è una poesia di Gianni Rodari che risuona spesso nella mia testa. Si intitola “Il treno degli emigranti“.

Pochi versetti, in cui è rinchiuso tutto quello che un emigrante porta con sè quando decide di lasciare la sua terra natale per cercare fortuna altrove, quella terra tanto amata che però non gli dà da mangiare per poter vivere.

Spesso chi non emigra non ha minimamente idea delle emozioni che prova una persona che lo fa.

Le ragioni per cui un qualcuno decide di emigrare sono molteplici, ma non per questo più o meno importanti. La valigia di cui parla Rodari è una valigia che non contiene scarpe o sapone o asciugamani. E una valigia che contiene la terra del villaggio, il pane e una frutta fresca, le cose materiali che più si avvicinano a ciò che conosciamo e che ci rendono felici.

Mi ricordo ancora quel giorno in cui decisi che l’emigrazione era l’unica scelta possibile per me e mio marito. Passai un paio di settimane a trovare tutte le scuse possibili e inimmaginabili per non doverlo fare, tuttavia, in quel momento lì, forse, era la scelta più sensata. Di sicuro non scappavamo dalla guerra o da altre situazioni difficilissime, semplicemente ci trasferivamo da un Paese europeo ad un altro.

Per me una tragedia. Avete presente quando Heidi viene portata di forza dalle Alpi a Francoforte e inizia a fare la sonnambula di notte perché le mancano le montagne? Beh, a me succede più o meno una cosa del genere. Qualche volta il mio stress è così forte che il mio fisico non lo regge, e reagisce scatenando diverse infezioni e/o malanni.

Per me l’emigrazione nei Paesi Bassi è stata ed è un calvario, non riesco a integrarmi in questa società, e stiamo parlando di una nazione europea.

Penso a come gli altri emigranti come me possano sentirsi, soprattutto quelli che scappano da condizioni disperate come guerra, mancanza di acqua, cibo, eccetera. Me lo chiedo spesso, come si può arginare la nostalgia?

Ah, la nostalgia… Secondo la definizione di Treccani:

Nostalgìa s. f. [comp. del gr. νόστος «ritorno» e -algia (v. algia)]. – Desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano […] Per estens., stato d’animo melanconico, causato dal desiderio di persona lontana (o non più in vita) o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque lontano: n. degli amici, dell’affetto materno; n. della giovinezza lontana; n. dei tempi passati.”

In portoghese, Saudade, non può essere tradotto. Impossibile. La nostalgia non ha cura chimica, l’unica soluzione è quella di poter tornare a casa, di poter vivere lì, dove ti senti appartenere, con la tua terra, il pezzo di pane senza sale e un frutto, tutto ciò che conta.

Non è grossa, non è pesante

la valigia dell’emigrante…

C’è un po’ di terra del mio villaggio,

per non restar solo in viaggio…

Un vestito, un pane, un frutto

e questo è tutto.

Ma il cuore no, non l’ho portato:

nella valigia non c’è entrato.

Troppa pena aveva a partire,

oltre il mare non vuole venire.

Lui resta, fedele come un cane,

nella terra che non mi dà pane:

un piccolo campo, proprio lassù…

Ma il treno corre: non si vede più.

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MIGRAZIONI DI CLASSE

“Loro sono i veri rifugiati”. Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così,…

Loro sono i veri rifugiati”.

Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così, mi trovo di fronte ad un operator* del settore dell’accoglienza rifugiati.

Siamo di fronte ad un caffè all’ombra del sole caldo di agosto. È l’agosto del 2021 e stanno arrivando in Italia i primi rifugiati dall’Afghanistan. Per quanto diverso il viaggio e la legalità del loro arrivo anche loro sono rientrati nel circolo delle richieste asilo e nel percorso necessario per l’ottenimento dello status di rifugiato, con i documenti che ne conseguono e la speranza di ricrearsi una vita.

Io prendo sempre il caffè amaro, adoro l’impatto iniziale che ha sulle labbra e il modo in cui si ritira la lingua a contatto col sapore forte del caffè. Sono alla fine di una giornata di lavoro particolarmente faticosa, i nuovi arrivi, l’assegnazione delle camere, provare a spiegare le regole del centro e il funzionamento del procedimento burocratico per l’ottenimento dei documenti. La fortuna di avere una lingua di comunicazione, l’inglese, è fondamentale. La mia giornata sta finendo e con dei colleghi commentiamo la fortuna di avere una lingua con cui comunicare con i rifugiati afgani appena arrivati al centro. Mi sto godendo la digestione al sole quando sento:

loro sono gli unici che hanno davvero il diritto di stare qui. Loro sono i veri rifugiati”.
La digestione si blocca.

Voglio premettere che io sono bianca, né ricca, né povera, ho sempre lavorato e studiato per aiutare la mia famiglia ma ho il lusso di studiare e vivere secondo la mia più semplice naturalezza. Dico questo perché penso sia una parte importante della mia reazione, chiamiamolo senso di colpa bianco, chiamiamolo buonismo, chiamiamola educazione cristiana ma questa distinzione tra immigrazione di serie A e immigrazione di serie B mi ha fatto andare di traverso il caffè.

Perché distinguere chi lascia casa propria, le proprie radici, i propri affetti, la propria lingua, classificandolo in base al motivo per cui decide (o è costretto) a fuggire? Quello che mi chiedo davvero è perché far ricadere su di loro la pesantezza di una categorizzazione così forte? Vogliamo dire che non poter dare da mangiare alla propria famiglia non è un motivo valido per cercare qualcosa di meglio? Il padre di mia nonna lavorò in Germania per molte estati in una miniera, in cosa era diverso?

Certo potremmo criticare il sistema di accoglienza, il fatto che un procedimento di richiesta di asilo può durare anche sette anni, durante i quali la persona dietro il processo, lavora, trova amici, crea quotidianità, si arrabbia, è felice, magari si innamora se è fortunato. E dopo sette anni di rinnovi del permesso di soggiorno ti dicono che non puoi più rimanere, che ora, dopo sette anni, devi lasciare di nuovo quella che magari avevi iniziato a sentire un po’ come casa tua.

Potremmo criticare certo, una mancanza di distinzione tra le motivazioni che portano alla migrazione, non classificandole ma gestendo i processi burocratici e gli status valutando i perché oltre al cosa, valutando cosa mi ha spinto così da sapere anche cosa cerco alla fine di questo viaggio. Ma perché ma perché far ricadere una classificazione gerarchica su chi tutto questo processo lo subisce? È “colpa” del ragazzo bengalese di venti anni, scappato per dare un futuro alla famiglia, se si è ritrovato nella macchina del richiedente asilo quando lui vorrebbe solo lavorare e mandare i soldi a casa? È colpa del Burkinabé’ fuggito da Boko Haram se il paese non dichiara uno stato di emergenza al confine col Mali?

La cosa che trovo ancora difficile da accettare, a distanza di mesi, è come questa distinzione sia stata trasferita sulla realtà giornaliera, non solo nel trattamento giuridico, nei tempi di attesa e nella priorità data a tutti i livelli della macchina burocratica, ma, soprattutto, del trattamento relazionale riservato a seconda della provenienza.

Certo, la fuga da una guerra in corso e da una situazione come quella dell’Afghanistan e dell’Ucraina rende necessaria la velocizzazione del processo ed è evidente che i controlli necessari dopo le dichiarazioni siano quasi inutili rispetto alle altre situazioni. È anche inevitabile che un uomo istruito e benestante faccia richieste diverse rispetto ad un ragazzo ventenne poco più che alfabetizzato e che le possibilità di comunicazione siano differenti. Sicuramente sarà solo il primo a chiedere la convalida di un titolo universitario e avrà bisogno di un aiuto in questo, cercherà un altro tipo di lavoro, potrà spiegarsi quando è triste, quando sta male, se non riesce a dormire perché i Talibani sono entrati nella casa dove vive sua moglie che non è riuscita a scappare..

E certamente, sarà inevitabile, riconoscere un problema di fondo nella politica di accoglienza italiana che non contempla i rifugiati economici o i rifugiati climatici tra le possibilità per le quali fare richiesta di soggiorno.

Ma questo giustifica una distinzione così classista tra immigrati “come noi” e immigrati “diversi”? rifugiati di serie A e rifugiati di serie B?

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Insieme verso un sogno condiviso: DREAMM

“A dream you dream alone is only a dream. A dream you dream together is reality.”John Lennon Oggi voglio condividere con voi un progetto, che in sé è un’esperienza, un’opportunità…

“A dream you dream alone is only a dream. A dream you dream together is reality.”
John Lennon

Oggi voglio condividere con voi un progetto, che in sé è un’esperienza, un’opportunità di mettersi in gioco, di crescita, di apprendimento informale, di riflessione e anche molto di più: il progetto DREAMM.

Come si può intuire dal nome, il termine deriva dall’inglese dream e significa sogno/ sognare. DREAMM è il nome del progetto europeo per l’integrazione e la promozione interculturale tra la comunità locale e i migranti appena arrivati, i third country nationals (TCNs).
Per lo stesso principio per cui i sogni prendono vita se condivisi dai più, ecco che dream diventa DREAMM, per inglobare nell’identità del progetto la sua parte innovativa.

La doppia consonante ha così una valenza figurativa, per includere sia i Mentors appartenenti alla comunità locale, sia i Migrants, beneficiari del progetto – TCNs.

Come si svolge il progetto? Cosa c’è di innovativo?

Semplice! La creazione di una rete di volontari, i mentors, appartenenti alla comunità locale, disponibili a supportare i migranti nelle sfide quotidiane della società d’arrivo. Ciò avviene tramite un processo d’orientamento sociale che si sviluppa come una relazione di mentorship peer-to-peer che permette una crescita e arricchimento bi-direzionale.

Le figure del progetto sono: lead mentors, mentors, Third countries nationals.
I lead mentors sono perlopiù professionisti attivi nel settore dell’accoglienza, con esperienza nel sociale, a supporto dei mentors.
I mentors sono giovani ragazzi, studenti universitari, donne, seconde generazioni.. insomma chiunque sia motivato e interessato ad intraprendere un percorso di arricchimento attraverso l’interazione interculturale.
I Third countries nationals, beneficiari ultimi del progetto, sono i cittadini di Paesi terzi presenti nella comunità locale, all’inizio del loro percorso d’inserimento nella società d’arrivo.

Il progetto ha portata internazionale ed è già attivo in altri 6 Stati Europei.

Io sono già una mentor.. Potresti scegliere di diventarlo anche te! Curioso di saperne di più?

Ti aspetto mercoledì pomeriggio dalle 15.00 alle 17.00 in via della Viola 1, PG, nella sede di CIDIS Onlus, per l’appuntamento settimanale del “One Roof Community Meetup!

Vieni con noi in un viaggio alternativo attraverso lingue, culture, e Paesi diversi, nell’attesa di poter tornare a viaggiare davvero!

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Dal Perù agli Stati Uniti… a Perugia alla ricerca delle mie radici!

Piacere! Mi chiamo Luciana e vi racconto un po’ la mia storia.. Sono nata e cresciuta in Perù, ma ho sempre sentito dentro di me la curiosità e la voglia…

Piacere! Mi chiamo Luciana e vi racconto un po’ la mia storia..

Sono nata e cresciuta in Perù, ma ho sempre sentito dentro di me la curiosità e la voglia di scoprire nuove culture e viaggiare.

Questo mi ha portato a trasferirmi negli Stati Uniti d’America dove ho vissuto per ben 12 anni, acquisendone la cittadinanza.
Tuttavia, non ho mai sentito come mia la cultura americana, troppo lontana da quella del mio Paese d’origine, così nel 2019 ho deciso di trasferirmi in Italia.

L’Italia è un Paese che è stato sempre presente nella mia infanzia. Il mio bisnonno era originario di Genova, quindi, crescendo ho sempre sentito storie sulla cultura e la vita in Italia, senza mai però avvicinarmi tanto da poterla vivere.
Ho deciso così di imparare l’italiano, e ho iniziato da autodidatta su Dualingo (tanta forza di volontà!) e una volta arrivata in Italia, ho continuato a sforzarmi di parlare la lingua fino a raggiungere un buon livello d’interazione.
Nel 2019, senza immaginare che una pandemia aspettava dietro l’angolo per sconvolgere la mia vita, mi sono trasferita a Perugia, dove ho iniziato a lavorare come ricercatrice ad un progetto dell’Università degli Studi di Perugia.

Ho una formazione umanistica, con una passione per la psicologia, e proprio all’Unipg, ho deciso di proseguire i miei studi con una magistrale in questo ambito.

Ad oggi, posso finalmente dire che sono felice e mi sento a casa. Mi reputo fortunata; già dal mio arrivo mi son sentita partecipe e inclusa nella cultura italiana. Ciò mi ha dato la consapevolezza che avevo finalmente trovato il mio posto.
A volte ho nostalgia della mia vita precedente, soprattutto gli amici, il lavoro, l’università.. ma se penso al futuro son sicura che è qui dove voglio rimanere!

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“Nuovi umbri” alla conquista dell’Europa!

Due “nuovi umbri” ci raccontano la loro esperienza Erasmus in Germania e la loro esperienza dell’Europa. Dai paesi dell’Umbria alla grande ed alternativa Berlino, passiamo la parola a Karima e…

Due “nuovi umbri” ci raccontano la loro esperienza Erasmus in Germania e la loro esperienza dell’Europa.
Dai paesi dell’Umbria alla grande ed alternativa Berlino, passiamo la parola a Karima e Myrco!

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“Così sono diventata infermiera in Italia”, una storia di volontà e sacrificio

Concitta, infermiera di professione da 33 anni. Da diciotto vive a Perugia, dove si è trasferita dall’Ecuador e dove ha trovato la sua seconda casa. L’abbiamo incontrata per farci raccontare…

Concitta, infermiera di professione da 33 anni. Da diciotto vive a Perugia, dove si è trasferita dall’Ecuador e dove ha trovato la sua seconda casa. L’abbiamo incontrata per farci raccontare la sua vita da umbra.

Concitta, da quanto tempo sei in Italia? Cosa fai a Perugia?
“Sono arrivata nel duemila, direttamente a Perugia.
All’inizio ho fatto un lavoro molto bello e onesto: l’assistenza alle persone anziane. Dopodiché mi sono impegnata per raggiungere il mio obiettivo: convalidare la mia laurea presa nel mio Paese, in Ecuador. Dicevo sempre: diventerò infermiera in Italia.”

È stato difficile?
“Non è stato facile non essendo cittadina dell’Unione Europea: ci sono voluti quattro anni e mezzo.  E’ stata anche un’importante spesa economica per cui ho sacrificato tutte le cose materiali ed ho lottato prima di tutto per mia figlia, la persona più importante per me. Finché finalmente ricevo una chiamata in cui mi dicono che era arrivato l’attestato del Ministero della Sanità. In quel momento mi sono inginocchiata per strada ed ho ringraziato il Signore. Non mi importava della gente che rideva perché sono molto credente, ma soprattutto perché non mi vergogno delle cose belle. Nella vita niente è regalato e l’essere umano deve lottare”.

E finalmente hai realizzato il tuo sogno
“Ho iniziato un percorso lavorativo viaggiando fuori Perugia, con tanti sacrifici perché lasciavo la mia bambina piccola e non la vedevo mai. Ora ho un lavoro meraviglioso a Perugia che svolgo con tanto amore e passione. Ho lavorato in molti ambiti professionali, ora sono in geriatria e sono capoturno. Mi impegno per creare un bel clima e l’atmosfera giusta donando ‘una mulichina’ (come dice il perugino) di affetto alle persone che soffrono”.

Oltre al lavoro, hai altre passioni?
“Da buona latino-americana mi piace tanto la musica e il ballo, la mia arte preferita è la manualità e il disegno. Mi considero una disegnatrice ed ho anche un canale Youtube: Amor Arte y Pasión de Allure. Mi piace realizzare tanti piccoli oggetti e decorazioni per esempio per le feste. Un giorno mi piacerebbe diventare organizzatrice di eventi e vorrei anche studiare per questo. Lo studio non ha età, quando uno ha volontà”.

Ti piace vivere a Perugia?
“All’inizio è stato difficile perché non conoscevo nessuno, ma la società perugina mi ha accolto e la ringrazio. Un’altra difficoltà è stata la lingua. Non ho mai studiato italiano, l’ho imparato stando in mezzo alla gente e anche la televisione mi ha aiutata molto. La mia prima professoressa, però, è stata la mia figlia.  Non la cambierei per niente al mondo. Amo tutto quello che c’è intorno a me, mi trovo e mi sento bene. Ho un bel rapporto con le persone perché uno il rapporto lo crea: nella vita dobbiamo dare per poter ricevere quindi ci dobbiamo comportare bene, seguire le regole e le leggi e ci troveremo bene ovunque. Gli ingredienti fondamentali per stare bene in ogni posto sono il rispetto e l’obbiettivo, perché se uno ha obbiettivi generali e specifici sai sempre dove andare. Mi sento perugina. Perugia mi ha adottata, mia figlia è nata nel mio Paese ma è come se fosse nata a Perugia, parla anche perugino. Anche a me scappa il perugino ogni tanto quando sono con i miei colleghi ormai. Amo Perugia, dopo la mia città originaria è la mia casa”.

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Facciamo un  gioco di ruolo

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo…

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo Sarah, sono nata il 2 aprile 1986 e ho la fortuna di essere nata in Italia, dalla parte giusta del mondo. Sono nata in una famiglia che, per vivere, ha dovuto fare moltissimi sacrifici, ma alla fine ce l’abbiamo fatta anche se ancora oggi fatichiamo ad arrivare a fine mese, ovviamente – rispetto a tante altre persone – non mi manca nulla. Ad un certo punto anche mia madre ha trovato lavoro, ma con altri due fratelli i sacrifici sono stati tanti. Certo, quando ero più giovane e vedevo i miei compagni di classe che facevano viaggi, avevano vestiti firmati, giocattoli all’avanguardia, ne ero invidiosa. Crescendo e studiando sono però riuscita a capire che i beni materiali non valgono poi così tanto se, nella vita, preferisci la morte di un essere umano solo perché di un colore di pelle diverso o una religione che non riesci a comprendere. Nonostante i tanti sacrifici e grazie all’aiuto di borse di studio, lavoretti come cameriera, baby sitter, “ragazza delle ripetizioni”, sono riuscita a conseguire il dottorato, e quindi mi reputo una persona davvero molto fortunata.

 

E adesso il gioco. Siamo il signor o la signora X che nel lontano anno Y è nata in Yemen, in Nigeria, in Mali, in Senegal, in Siria, in Libia, in Messico, in Venezuela, in Afghanistan, in Iraq, in Palestina o in qualsiasi altra nazione. Ciascuno di noi può scegliere il Paese che vuole, con una sola regola: deve essere presente un conflitto armato, dove vivere è così pericoloso da non poter neanche uscire di casa oppure, dove è così difficile da trovare acqua potabile che, per farlo, dovete camminare almeno 20km ogni giorno. Ok siamo pronti.

 

Io scelgo la Nigeria. La Nigeria è una nazione dell’Africa centrale, colonia britannica dal 1914 alla quale venne concessa la completa indipendenza il 1° ottobre 1960. Questo ha fatto si che sette anni dopo, il gruppo etnico degli Igbo, dominante nella regione orientale, dichiarò l’indipendenza dalla Nigeria che portò a una sanguinosa guerra civile, la guerra del Biafra. Da qui, il detto italiano comune, almeno nella mia provincia, destinato a qualcuno molto magro e mal vestito: «mi sembri uno del Biafra», direi, orribile! Dopo diversi colpi di Stato, prese di potere e soprattutto l’istallazione di compagnie petrolifere hanno provocato un disastro ambientale sul delta del Niger. Distruggendo flora e fauna locali.

 

La Nigeria è al 50% musulmana e al 49% cristiana. Per anni cristiani e musulmani hanno vissuto insieme, non era una questione di appartenere a una religione invece che un’altra, fino a quando il gruppo terrorista Boko Haram ha preso possesso di alcuni territori iniziando a uccidere chiunque andasse contro i loro principi “musulmani”, se così si possono definire. Boko Haram, significa letteralmente “Occidente Proibito”, questo gruppo, ammaliato da un islam mal interpretato uccide chiunque, musulmani e cristiani. Non c’è differenza. Utilizzano bambini per farsi esplodere, hanno rapito nel 2014, 276 studentesse.

 

Ecco, detto ciò, e se voi, se tu, se io, fossimo nati in Nigeria 20, 30 o 40 anni fa? Che cosa avremmo fatto? Saremmo rimasti a farci uccidere o avremmo tentato l’impossibile e utilizzato tutti i nostri risparmi per tentare di sopravvivere da qualche altra parte nel mondo?

Lascio a voi le conclusioni.

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