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MIGRAZIONI DI CLASSE

“Loro sono i veri rifugiati”. Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così,…

Loro sono i veri rifugiati”.

Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così, mi trovo di fronte ad un operator* del settore dell’accoglienza rifugiati.

Siamo di fronte ad un caffè all’ombra del sole caldo di agosto. È l’agosto del 2021 e stanno arrivando in Italia i primi rifugiati dall’Afghanistan. Per quanto diverso il viaggio e la legalità del loro arrivo anche loro sono rientrati nel circolo delle richieste asilo e nel percorso necessario per l’ottenimento dello status di rifugiato, con i documenti che ne conseguono e la speranza di ricrearsi una vita.

Io prendo sempre il caffè amaro, adoro l’impatto iniziale che ha sulle labbra e il modo in cui si ritira la lingua a contatto col sapore forte del caffè. Sono alla fine di una giornata di lavoro particolarmente faticosa, i nuovi arrivi, l’assegnazione delle camere, provare a spiegare le regole del centro e il funzionamento del procedimento burocratico per l’ottenimento dei documenti. La fortuna di avere una lingua di comunicazione, l’inglese, è fondamentale. La mia giornata sta finendo e con dei colleghi commentiamo la fortuna di avere una lingua con cui comunicare con i rifugiati afgani appena arrivati al centro. Mi sto godendo la digestione al sole quando sento:

loro sono gli unici che hanno davvero il diritto di stare qui. Loro sono i veri rifugiati”.
La digestione si blocca.

Voglio premettere che io sono bianca, né ricca, né povera, ho sempre lavorato e studiato per aiutare la mia famiglia ma ho il lusso di studiare e vivere secondo la mia più semplice naturalezza. Dico questo perché penso sia una parte importante della mia reazione, chiamiamolo senso di colpa bianco, chiamiamolo buonismo, chiamiamola educazione cristiana ma questa distinzione tra immigrazione di serie A e immigrazione di serie B mi ha fatto andare di traverso il caffè.

Perché distinguere chi lascia casa propria, le proprie radici, i propri affetti, la propria lingua, classificandolo in base al motivo per cui decide (o è costretto) a fuggire? Quello che mi chiedo davvero è perché far ricadere su di loro la pesantezza di una categorizzazione così forte? Vogliamo dire che non poter dare da mangiare alla propria famiglia non è un motivo valido per cercare qualcosa di meglio? Il padre di mia nonna lavorò in Germania per molte estati in una miniera, in cosa era diverso?

Certo potremmo criticare il sistema di accoglienza, il fatto che un procedimento di richiesta di asilo può durare anche sette anni, durante i quali la persona dietro il processo, lavora, trova amici, crea quotidianità, si arrabbia, è felice, magari si innamora se è fortunato. E dopo sette anni di rinnovi del permesso di soggiorno ti dicono che non puoi più rimanere, che ora, dopo sette anni, devi lasciare di nuovo quella che magari avevi iniziato a sentire un po’ come casa tua.

Potremmo criticare certo, una mancanza di distinzione tra le motivazioni che portano alla migrazione, non classificandole ma gestendo i processi burocratici e gli status valutando i perché oltre al cosa, valutando cosa mi ha spinto così da sapere anche cosa cerco alla fine di questo viaggio. Ma perché ma perché far ricadere una classificazione gerarchica su chi tutto questo processo lo subisce? È “colpa” del ragazzo bengalese di venti anni, scappato per dare un futuro alla famiglia, se si è ritrovato nella macchina del richiedente asilo quando lui vorrebbe solo lavorare e mandare i soldi a casa? È colpa del Burkinabé’ fuggito da Boko Haram se il paese non dichiara uno stato di emergenza al confine col Mali?

La cosa che trovo ancora difficile da accettare, a distanza di mesi, è come questa distinzione sia stata trasferita sulla realtà giornaliera, non solo nel trattamento giuridico, nei tempi di attesa e nella priorità data a tutti i livelli della macchina burocratica, ma, soprattutto, del trattamento relazionale riservato a seconda della provenienza.

Certo, la fuga da una guerra in corso e da una situazione come quella dell’Afghanistan e dell’Ucraina rende necessaria la velocizzazione del processo ed è evidente che i controlli necessari dopo le dichiarazioni siano quasi inutili rispetto alle altre situazioni. È anche inevitabile che un uomo istruito e benestante faccia richieste diverse rispetto ad un ragazzo ventenne poco più che alfabetizzato e che le possibilità di comunicazione siano differenti. Sicuramente sarà solo il primo a chiedere la convalida di un titolo universitario e avrà bisogno di un aiuto in questo, cercherà un altro tipo di lavoro, potrà spiegarsi quando è triste, quando sta male, se non riesce a dormire perché i Talibani sono entrati nella casa dove vive sua moglie che non è riuscita a scappare..

E certamente, sarà inevitabile, riconoscere un problema di fondo nella politica di accoglienza italiana che non contempla i rifugiati economici o i rifugiati climatici tra le possibilità per le quali fare richiesta di soggiorno.

Ma questo giustifica una distinzione così classista tra immigrati “come noi” e immigrati “diversi”? rifugiati di serie A e rifugiati di serie B?

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Al Consiglio d’Europa tutti soddisfatti, nessuna soluzione

Se per caso in questi giorni vi è capitato di accendere la televisione, o il pc, o avete usato facebook, vi sarete probabilmente accorti che per un po’ il tema…

Se per caso in questi giorni vi è capitato di accendere la televisione, o il pc, o avete usato facebook, vi sarete probabilmente accorti che per un po’ il tema del momento è stato il Consiglio Europeo del 28-29 giugno, che ha inaspettatamente – ma neanche tanto – finito per concentrarsi sul “problema” migranti (concedetemi le virgolette: lo chiamerò anche io “problema” dato che il dibattito è sceso fino a questo livello, ma non riesco a prendere sul serio quest’espressione in politichese stretto).

“Ma Bruxelles è in provincia di Perugia o di Terni ora? Cosa c’entra Blog Niù in tutto questo?” C’entra, fidatevi che c’entra come c’entriamo tutti, chi più chi meno… ma andiamo con ordine.

Tutti salvi?

A prima vista, poche cose sembrano chiare di tutto l’avvenimento. La più chiara è che, dopo una notte passata a combattere anche sulle virgole, anche solo il fatto di aver trovato un qualche tipo di accordo deve essere sembrato un miracolo. E infatti al mattino i protagonisti erano tutti soddisfatti: la Francia per aver salvato l’Europa, la Germania per aver salvato il summit, la Spagna per aver salvato i migranti (era successo il giorno prima, speriamo continuino), l’Italia per aver salvato la faccia (ma non proprio), il “gruppo di Visegrad” per aver salvato la loro linea guida del “rimanete fuori che tanto non vi vogliamo”. Se questa soddisfazione generale vi sembra sospetta, non preoccupatevi: avete ragione.

La seconda cosa più chiara è che, almeno sul tema migranti, la notte in bianco non ha portato grandi novità. Non entriamo in tecnicismi, andiamo al succo della questione.

Per iniziare, tutti si sono detti d’accordo su un fatto: se un migrante economico si avvicina all’Europa, deve fare dietrofront, o verrà costretto a farlo. Anche senza contare che l’Italia e gli altri Paesi europei non hanno accordi con tutti i possibili Paesi d’origine di questi migranti, e quindi la soluzione trovata lascia il tempo che trova; sembra che nessuno si renda conto che chi viene fino a qua “solo” per un problema economico lo fa perché effettivamente si trova in enormi difficoltà nel suo Paese. E non stiamo parlando di problemi tipo “non guadagno abbastanza da comprarmi il mio secondo smartphone dell’anno, devo guadagnare di più, vado in Europa”. Ma questo è quello che sembra credere una fetta importante di chi va a votare, e quindi vuoi per mantenersi a galla, vuoi per mantenersi sulla cresta dell’onda, i leader europei non potevano che trovarsi d’accordo almeno su questo punto.

Migranti economici vs. richiedenti asilo

I risultati che danno più da pensare coinvolgono una categoria protetta a livello universale: i migranti che possono richiedere lo status di “rifugiato”, perché per qualche motivo (razziale, etnico, religioso, di preferenze sessuali o politiche) perseguitati nella loro terra. E che decidono di abbandonare tutto per vivere serenamente la loro vita in Europa: patria dei diritti e delle libertà, o almeno così ancora dicono.

Anche loro, come i migranti economici, sono per lo più costretti a fare viaggi impensabili (avete letto la storia di Mamadou?); e anche loro spesso devono rivolgersi a criminali o ad usare mezzi più o meno avventurosi per sperare di raggiungere l’Europa. Una Terra Promessa che però sembra non volere neanche loro: il rifugiato che vede accolta la domanda di protezione internazionale deve rimanere nel Paese che gliel’ha concessa, senza possibilità di trovare un altro posto in cui vivere. Il che vuol dire che se arriva e ottiene la protezione in Italia, non potrà spostarsi più in un altro Paese: se ci prova, viene riportato indietro perché lì (che so, in Austria o in Baviera) alcuni non vogliono avere nulla a che fare con i migranti e preferiscono vederli altrove. Il che, considerando che anche alcuni italiani vorrebbero non avere nulla a che fare con i migranti e preferirebbero mandarli altrove (che so, in Austria o in Baviera), sembra un cane che si morde la coda.

Ma stiamo divagando, torniamo sul pezzo.

Il problema è questo: se i migranti economici non possono entrare, e i rifugiati invece sì, e viaggiano insieme negli stessi barconi o lungo le stesse strade (perché non ci siamo solo noi, ricordiamocelo: chi viene dalla Siria fa un percorso molto diverso e con mezzi diversi rispetto a chi viene dall’Africa, e sono altri i Paesi che vengono attraversati da questa gente); se tutto questo è vero, dicevamo, come capire chi è chi, e se può far valere dei diritti?

Quando la soluzione è peggiore del “problema”

Soluzione numero 1: rifilare la patata bollente ai Paesi di transito, dove esaminare le domande di asilo in strutture apposite, in modo da scoraggiare traversate pericolose. Tutto molto bello, se non fosse per un particolare: alcuni hanno già deciso di rifiutare la gentile proposta del Consiglio europeo, Libia inclusa (forse meglio così: una cosa del genere in posti come la Libia, vista la situazione che vive chi è costretto a passare per i centri di detenzione, ha un non so che di presa in giro). Come si risolve la questione? Convincere questi Paesi sembra complicato; costringerli non suona come un gran piano. Che fare? Silenzio assoluto, nessuna indicazione fino a ottobre, passiamo ad altro.

Soluzione numero 2: i Paesi europei potrebbero costruire dei “centri di identificazione” (diversi da quelli conosciuti, con una punta di ironia o di sadismo, come “centri di accoglienza”) per esaminare le proposte in fretta, tre giorni al massimo, come quelli presenti in Italia e Grecia. Anche se poi alla fine tutta questa velocità non c’è, e con l’efficienza che ci contraddistingue i centri finiscono per “accogliere” sempre più persone, in condizioni sempre peggiori, per periodi sempre più lunghi. Ok, magari in nord Europa la cosa funzionerebbe meglio; ma ne siamo poi sicuri? E se poi la cosa andasse male, cosa ci inventeremo per peggiorare la situazione?

Soprattutto, la parola chiave qui è “potrebbero”: anche su questo punto, nessuno è obbligato. Tanto per dire, Francia e Austria si sono già tirati fuori. Il che significa che, nella speranza che almeno i porti vengano riaperti e ricominci il dialogo con le Ong, si continuerà sulla falsariga seguita finora: lo status di rifugiato potrà essere valutato e richiesto solo nel Paese di arrivo (vedi: Italia, Grecia, Spagna), mentre i migranti nei centri di identificazione aumentano fino a livelli non più sostenibili, sia per i migranti stessi (costretti ad essere accolti nel loro carcere che carcere non è) che per chi vive nella zona (per una questione di percezione del “problema” che problema non è); intanto, i politicanti locali punteranno sul tradimento dell’Europa sul “problema” migranti e sul sempre verde tema dell’”invasione”, e si esacerberanno malumori e pregiudizi nei Paesi (vedi: Italia) in cui questi già stanno montando, con i risultati che sappiamo.

E l’Umbria?

Ora torniamo a noi. Tutti abbiamo vissuto una campagna elettorale fatta più di promesse irrealizzabili, di disinformazione e di facili slogan che di sensibilità verso problemi reali, vissuti da persone reali, e che necessitano di una soluzione reale, o perlomeno realistica. Non chiudere gli occhi (oltre che i porti) davanti alle sofferenze, ma dare una mano d’aiuto (e non le spalle) a chi viene qui per cambiare la propria vita. E la cosa non succede solo in Italia: il Consiglio Europeo dimostra, se ancora non ce ne fossimo accorti, che il Problema (lettera maiuscola, nessuna virgoletta: questa è una cosa seria) è comune, anche se pensiamo di no.

“Sì, ma l’Umbria?”. L’ho già detto, i risultati l’abbiamo già visti, anche qui. Sarà un caso, ma da qualche giorno una certa città ha assunto una tonalità di verde molto particolare…

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