Commenti disabilitati su Tiàwuk: alla scoperta di un nuovo pianeta. Il viaggio di Gabriele Cecconi tra realtà e finzione
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Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione…
Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione Istanti, il fotografo ci ha raccontato della sua esperienza in Kuwait e di come sia maturata l’idea di creare un progetto fotografico in grado di restituire la complessità di un mondo “distopico” e di un Paese caratterizzato da un modello islamico contrapposto ad un sistema capitalista.
“Ho conosciuto il Kuwait tramite una minoranza etnica e così è stato possibile raccontare il mondo arabo andando oltre gli stereotipi che vengono attribuiti dal mondo occidentale. Ero interessato a come le persone vivono in un ambiente dove da un punto di vista estetico realtà e finzione sono due facce della stessa medaglia”.
L’esperienza in Kuwait ha consentito a Gabriele di documentare un Paese dalle molteplici contraddizioni, dove gli eccessi e la ricchezza economica lo caratterizzano. Ne sono testimonianza la raccolta di foto che ci ha presentato.
“Sono stato ospitato da un ricco kuwatiano che nella sua sfarzosissima villa teneva un ghepardo come fosse un gattino. Lì per lì ho avuto anche un po’ di paura non essendomi mai trovato così vicino un animale del genere”.
Il progetto di Gabriele ci ha permesso di “viaggiare” attraverso il suo approccio e linguaggio fotografico in un Paese così diverso e così surreale che solo i sui scatti ne colgono la complessità e ne attribuisco un profondo significato che lascia riflettere sulla natura umana e sulla sua fragilità interiore.
Kuwait City, Emirate of Kuwait, 13/03/2019 – A cheetah is seen inside a private house. After raising a lion for 3 years, the owners now takes care of two cheetahs that roam freely around the living room of his house. Despite it’s now illegal to own wild animals, there is still a lot of Kuwaiti citizens who. want them as a form of obstentation and status. Ph Gabriele CecconiWafra, Emirate of Kuwait, 29/01/2020 – An horse is seen inside an horse stable with on the background a small reproduction of the italian coliseum. Kuwait was considered one of the most important business centers for the sale and export of Arabian horses as opposed to breeders in other countries. The Arabian horses are one of the best breeds in the world due to their speed and stamina and still now despite horse trade has ceased to export abroad with the development of life, change of conditions and the introduction of cars spread throughout the country, there are a lot of rich individuals who did not stop their passion for Arabian horses breeding and trading. Ph Gabriele Cecconi
Commenti disabilitati su Community Action: partecipare al cambiamento
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Come partecipare al cambiamento di una comunità? È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra…
È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra le diverse attività e azioni da intraprendere.
Nel mio caso, grazie alla partecipazione al progetto europeo DREAMM. L’esperienza mi sta facendo scoprire la bellezza e la complessità di lavorare una comunità diversa che lavora per un obiettivo comune: una società più inclusiva e multiculturale.
L’ultimo task all’ordine del giorno è la creazione di uno spazio comune, interculturale, accogliente, dinamico ed aperto a tutti.
La call to action per la creazione di un Community Space innovativo mira a realizzare lo spazio partendo dai bisogni e dalle idee della popolazione locale.
Per ascoltare le voci della comunità locale sono pensati diversi appuntamenti, per favorire il coinvolgimento e la partecipazione attiva della popolazione della zona.
Il primo evento sarà Mercoledì 20 Aprile 2022, alle ore 16.00 presso l’Aula V del Dipartimento di Fissuf, Piazza Giuseppe Ermini 1, Perugia.
“Loro sono i veri rifugiati”. Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così,…
Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così, mi trovo di fronte ad un operator* del settore dell’accoglienza rifugiati.
Siamo di fronte ad un caffè all’ombra del sole caldo di agosto. È l’agosto del 2021 e stanno arrivando in Italia i primi rifugiati dall’Afghanistan. Per quanto diverso il viaggio e la legalità del loro arrivo anche loro sono rientrati nel circolo delle richieste asilo e nel percorso necessario per l’ottenimento dello status di rifugiato, con i documenti che ne conseguono e la speranza di ricrearsi una vita.
Io prendo sempre il caffè amaro, adoro l’impatto iniziale che ha sulle labbra e il modo in cui si ritira la lingua a contatto col sapore forte del caffè. Sono alla fine di una giornata di lavoro particolarmente faticosa, i nuovi arrivi, l’assegnazione delle camere, provare a spiegare le regole del centro e il funzionamento del procedimento burocratico per l’ottenimento dei documenti. La fortuna di avere una lingua di comunicazione, l’inglese, è fondamentale. La mia giornata sta finendo e con dei colleghi commentiamo la fortuna di avere una lingua con cui comunicare con i rifugiati afgani appena arrivati al centro. Mi sto godendo la digestione al sole quando sento:
“loro sono gli unici che hanno davvero il diritto di stare qui. Loro sono i veri rifugiati”. La digestione si blocca.
Voglio premettere che io sono bianca, né ricca, né povera, ho sempre lavorato e studiato per aiutare la mia famiglia ma ho il lusso di studiare e vivere secondo la mia più semplice naturalezza. Dico questo perché penso sia una parte importante della mia reazione, chiamiamolo senso di colpa bianco, chiamiamolo buonismo, chiamiamola educazione cristiana ma questa distinzione tra immigrazione di serie A e immigrazione di serie B mi ha fatto andare di traverso il caffè.
Perché distinguere chi lascia casa propria, le proprie radici, i propri affetti, la propria lingua, classificandolo in base al motivo per cui decide (o è costretto) a fuggire? Quello che mi chiedo davvero è perché far ricadere su di loro la pesantezza di una categorizzazione così forte? Vogliamo dire che non poter dare da mangiare alla propria famiglia non è un motivo valido per cercare qualcosa di meglio? Il padre di mia nonna lavorò in Germania per molte estati in una miniera, in cosa era diverso?
Certo potremmo criticare il sistema di accoglienza, il fatto che un procedimento di richiesta di asilo può durare anche sette anni, durante i quali la persona dietro il processo, lavora, trova amici, crea quotidianità, si arrabbia, è felice, magari si innamora se è fortunato. E dopo sette anni di rinnovi del permesso di soggiorno ti dicono che non puoi più rimanere, che ora, dopo sette anni, devi lasciare di nuovo quella che magari avevi iniziato a sentire un po’ come casa tua.
Potremmo criticare certo, una mancanza di distinzione tra le motivazioni che portano alla migrazione, non classificandole ma gestendo i processi burocratici e gli status valutando i perché oltre al cosa, valutando cosa mi ha spinto così da sapere anche cosa cerco alla fine di questo viaggio. Ma perché ma perché far ricadere una classificazione gerarchica su chi tutto questo processo lo subisce? È “colpa” del ragazzo bengalese di venti anni, scappato per dare un futuro alla famiglia, se si è ritrovato nella macchina del richiedente asilo quando lui vorrebbe solo lavorare e mandare i soldi a casa? È colpa del Burkinabé’ fuggito da Boko Haram se il paese non dichiara uno stato di emergenza al confine col Mali?
La cosa che trovo ancora difficile da accettare, a distanza di mesi, è come questa distinzione sia stata trasferita sulla realtà giornaliera, non solo nel trattamento giuridico, nei tempi di attesa e nella priorità data a tutti i livelli della macchina burocratica, ma, soprattutto, del trattamento relazionale riservato a seconda della provenienza.
Certo, la fuga da una guerra in corso e da una situazione come quella dell’Afghanistan e dell’Ucraina rende necessaria la velocizzazione del processo ed è evidente che i controlli necessari dopo le dichiarazioni siano quasi inutili rispetto alle altre situazioni. È anche inevitabile che un uomo istruito e benestante faccia richieste diverse rispetto ad un ragazzo ventenne poco più che alfabetizzato e che le possibilità di comunicazione siano differenti. Sicuramente sarà solo il primo a chiedere la convalida di un titolo universitario e avrà bisogno di un aiuto in questo, cercherà un altro tipo di lavoro, potrà spiegarsi quando è triste, quando sta male, se non riesce a dormire perché i Talibani sono entrati nella casa dove vive sua moglie che non è riuscita a scappare..
E certamente, sarà inevitabile, riconoscere un problema di fondo nella politica di accoglienza italiana che non contempla i rifugiati economici o i rifugiati climatici tra le possibilità per le quali fare richiesta di soggiorno.
Ma questo giustifica una distinzione così classista tra immigrati “come noi” e immigrati “diversi”? rifugiati di serie A e rifugiati di serie B?
Commenti disabilitati su Dal Perù agli Stati Uniti… a Perugia alla ricerca delle mie radici!
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Piacere! Mi chiamo Luciana e vi racconto un po’ la mia storia.. Sono nata e cresciuta in Perù, ma ho sempre sentito dentro di me la curiosità e la voglia…
Piacere! Mi chiamo Luciana e vi racconto un po’ la mia storia..
Sono nata e cresciuta in Perù, ma ho sempre sentito dentro di me la curiosità e la voglia di scoprire nuove culture e viaggiare.
Questo mi ha portato a trasferirmi negli Stati Uniti d’America dove ho vissuto per ben 12 anni, acquisendone la cittadinanza. Tuttavia, non ho mai sentito come mia la cultura americana, troppo lontana da quella del mio Paese d’origine, così nel 2019 ho deciso di trasferirmi in Italia.
L’Italia è un Paese che è stato sempre presente nella mia infanzia. Il mio bisnonno era originario di Genova, quindi, crescendo ho sempre sentito storie sulla cultura e la vita in Italia, senza mai però avvicinarmi tanto da poterla vivere. Ho deciso così di imparare l’italiano, e ho iniziato da autodidatta su Dualingo (tanta forza di volontà!) e una volta arrivata in Italia, ho continuato a sforzarmi di parlare la lingua fino a raggiungere un buon livello d’interazione. Nel 2019, senza immaginare che una pandemia aspettava dietro l’angolo per sconvolgere la mia vita, mi sono trasferita a Perugia, dove ho iniziato a lavorare come ricercatrice ad un progetto dell’Università degli Studi di Perugia.
Ho una formazione umanistica, con una passione per la psicologia, e proprio all’Unipg, ho deciso di proseguire i miei studi con una magistrale in questo ambito.
Ad oggi, posso finalmente dire che sono felice e mi sento a casa. Mi reputo fortunata; già dal mio arrivo mi son sentita partecipe e inclusa nella cultura italiana. Ciò mi ha dato la consapevolezza che avevo finalmente trovato il mio posto. A volte ho nostalgia della mia vita precedente, soprattutto gli amici, il lavoro, l’università.. ma se penso al futuro son sicura che è qui dove voglio rimanere!
Commenti disabilitati su Accoglienza e umanità: come Riace mi ha rapito il cuore
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Il modello Riace ha rappresentato un modello di accoglienza funzionante e sicuramente unico nel suo genere in Italia. Ne parliamo con Jasmina, una giovane “seconda generazione” che ha deciso di…
Il modello Riace ha rappresentato un modello di accoglienza funzionante e sicuramente unico nel suo genere in Italia. Ne parliamo con Jasmina, una giovane “seconda generazione” che ha deciso di viverlo sul posto, studiarlo e ora… raccontarcelo.
Come hai scoperto il modello Riace e perché te ne sei interessata?
“L’ho scoperto tre anni fa parlando con un mio amico di immigrazione. Mi ha parlato di questa situazione di Riace e mi sono incuriosita. All’epoca il materiale per informarsi era poco, ma l’argomento mi appassionava e sono andata avanti, fino a sceglierlo come argomento di tesi per la mia laurea triennale.
L’idea che ci fosse un paese di 2000 anime (anzi, molte di meno) che abbia accolto e fatto un’esperienza del genere è sorprendente”.
Parlaci un po’ della tua esperienza
“Sono stata giù due volte. A febbraio 2018 è stato un po’ più difficile perché c’era meno gente e il primo impatto con i calabresi è stato tosto. Poi ho capito che in realtà sono persone che quando ti conoscono ti danno tutto. E da qui ho cominciato a vivere secondo il loro stile: con ritmi solari, più compassati, senza preoccuparsi troppo se il pullman passa in ritardo o no. A quel punto osservavo molto durante la giornata e parlavo tanto con la gente, con chiunque”.
In sintesi, cosa aveva di particolare rispetto al sistema “standard”? In cosa consisteva il quid che lo rendeva diverso da altri?
“Ho paragonato Riace con altri modelli di accoglienza europei (ad esempio, le banlieu parigine) come argomento della mia tesi triennale. Riace è un modello che parte dal basso, con un’accoglienza spontanea partita dalla gente che voleva andare incontro a persone in situazione di disagio. Non è partito da un progetto calato dall’alto, dalla politica, è forse questo è stato il suo successo”.
È vero che il modello Riace era molto conosciuto anche fuori dall’Italia?
“Due anni fa il modello Riace era molto più conosciuto all’estero che in Italia, tanto che il sindaco Domenico Lucano venne inserito dalla rivista Fortune tra le 50 personalità più influenti al mondo. A Riace sono arrivati Ada Colau, sindaco di Barcellona, e il municipio di Parigi a sostenere questo modello. Sono giunti persino dei cinesi a studiarlo. In Francia addirittura esiste una radio che ha una rubrica settimanale in cui 30 minuti a settimana parlano di Riace come modello funzionante di integrazione”.
Come si sosteneva il modello Riace?
“I fondi per portare avanti il tutto arrivavano da progetti europei, gestiti poi dalla prefettura. Negli ultimi tempi, verso luglio, c’era più difficoltà per questi fondi erano bloccati e molti esercenti erano in difficoltà. La cosa particolare era che nei paesi vicini a Riace i fondi per attività simili erano arrivati, e questo lasciava pensare perciò a un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote al progetto stesso”.
E sul piano concreto come si è sviluppato questo modello?
“A Riace ci sono diversi SPRAR (Sistema protezione per richiedenti asilo e rifugiati), uno dei quali per minori non accompagnati, assistiti da mediatori culturali, operatori e altre figure professionali dedicate. C’erano molte case abbandonate, causa del trasferimento dei suoi abitanti storici verso il Nord. Lucano ha chiamato uno ad uno i vecchi proprietari, convincendoli a riaffittare queste case anche a canoni bassi, che vengono pagati dall’Associazione Città Futura che gestisce tutto il progetto che conosciamo. Sono case molto vecchie, semplici, non lussuose, ma ora sono tutte abitati e permette ai migranti di vivere con una dignità che non possono avere nei centri di accoglienza. Gli stessi soldi per la sussistenza vengono affidati direttamente ai migranti, che così possono fare la loro spesa e non essere dipendenti da altri. E queste semplici accortezza danno autonomia, permettono ai migranti di conoscere la gente che va a fare spesa e gli stessi esercenti, così come il contadino che porta i prodotti agricoli con il suo carretto su in paese. In questo modo si può fare vera integrazione”.
Quale era l’opinione su questo modello degli abitanti del posto?
“Parlando con i Riacesi storici, l’arrivo di migranti non ha scombussolato nulla nella loro comunità, è stato semplicemente un arricchimento. Infatti, considerando che Riace aveva un futuro di desolazione, con gli immigrati si è sicuramente arricchita. La moneta locale creata per favorire l’economia degli esercenti locali ha contribuito a far rifiorire o continuare le loro attività, soprattutto a Riace Alta (nella parte bassa c’è più la grande distribuzione). Un esempio è la riapertura del bar della piazza centrale di Riace Alta da parte di un ragazzo locale, erede della famiglia che aveva il bar anni fa, che è tornato a Riace anche su proposta di Lucano, ed ora il bar vive come una volta”.
Come definiresti il rapporto tra locali e stranieri?
“Non c’è mai stato uno scontro, anzi litigano molto più tra i Riacesi che con gli immigrati. Ci sono sempre oppositori, ma sono la minoranza. I bambini vanno a giocare sulla terrazza degli anziani. Ci sono tanti bambini, fanno confusione e animano il paese. I piccoli nati qua da donne migranti hanno quasi tutti nomi italiani, alcuni addirittura parlano il dialetto locale. I bambini sono accomunati dal gioco, la differenza del colore della pelle non esiste, sono come fratelli”.
Vuoi parlarci di un momento, un episodio legato alla tua esperienza a Riace?
“Lì è tutto un episodio. Per dire, il sindaco conosce tutti i bambini e loro sono affezionatissimi a lui. Gira in t-shirt, gioca con i bambini, ci parla, li sgrida. È un po’ come un padre, e molti di questi bambini sono arrivati qua solo con le madri, per cui cercano in lui quella figura paterna che ora gli manca”.
Hai vissuto qualche situazione in cui si è più manifestata la bontà del modello Riace?
“Ti faccio un esempio. Una storica “vecchietta” di Riace, vedova, è contentissima di tutto questo, perché vede molti bambini ed ha gente che le fa sempre compagnia. Addirittura molte ragazze straniere vanno da lei, cucinano e mangiano insieme. Ci sono anche molte persone un po’ scorbutiche, ma i mugugni rimangono per conto loro. Al Sud l’ospitalità è sacra, e Riace lo ha testimoniato in pieno. Un giorno ho visto poi una scena che mi ha commosso: un abbraccio tra un piccolo bambino nero e un bambino riacese più grande e alto. Una scena tanto spontanea quanto strana nei nostri contesti”.
Quali sono le storie dei migranti di Riace?
“I migranti arrivavano soprattutto dall’Africa subsahariana, attraverso un viaggio lungo, tormentato e molto costoso (circa 1700-2000€, che sono tanti per noi, figurarsi per loro). Mi impressionò il racconto di una donna, che attraversò il deserto con il figlio di 3 anni e lì decise che sarebbe morta. Il figlio l’ha spinta ad andare avanti e nonostante altre peripezie (gommone scoppiato, figlio con un braccio rotto e pesantemente infettato), ora vivono tranquillamente a Riace. Un’altra ragazza che ho intervistato è stata separata dal marito in Libia, quando lei era incinta. È venuta a sapere poco dopo che il marito era diventato schiavo. Lei è arrivata in Italia, sono due anni che non lo sente e non sa più nulla di lui. Lei soffre molto anche sono nel raccontare queste cose. Ed io soffrivo con loro nel sentirle”.
C’è qualcosa che vorresti cambiare o evitare che accada a Riace?
“Mi darebbe fastidio che qualcuno da turista, andasse a Riace per vedere i migranti. Per farvi capire, a febbraio visitai la scuola di Riace, ora chiusa perché non si riesce a trovare il numero minimo di ragazzi per le aule. La situazione è molto diversa e meno formale, perché all’interno ci sono anche persone di 20 o 30 anni, a cui a volte è difficile dire cosa fare. Quando, con un’altra ragazza, ci fecero entrare in classe per farci vedere come funzionava il tutto mi ricordo che una ragazza ci vide e abbassò lo sguardo, vergognandosi tantissimo. Lei probabilmente si è sentita come un’attrazione, ed io mi sono sentita male per lei, uscendo immediatamente dalla classe. E sinceramente, se a me qualcuno mi fosse venuto a vedere a scuola come se fossimo allo zoo, mi avrebbe dato tanto fastidio, per cui ho capito appieno la sua reazione”.
Quanto ha influito sul modello Riace la figura di Domenico Lucano?
“Sicuramente molto. Mimmo (così lo chiama Jasmina, ndr) è una persona spontanea, e lo si nota tranquillamente dalle interviste che gli sono sempre state fatte. È uno spirito libero, a tratti anarchico, ma agisce sempre pensando, e facendo quanto in suo potere per portare avanti le sue attività, a volte scontrandosi anche con la lenta burocrazia italiana. È una persona molto colta, che ha vissuto anche fuori dalla Calabria e che ha voluto riportare qui certi valori come l’accoglienza, la solidarietà, la lotta alla criminalità (le stesse vie del paese sono in gran parte dedicate a vittime di mafia e ‘ndrangheta). Da queste idee rese concrete nasce, anzi rinasce, Riace”.
Quindi pensi che ora tutto questo possa finire?
“Gli immigrati hanno portato vitalità. Riace era abbastanza desolato, vittima di uno spopolamento dovuto ai trasferimenti di ragazzi verso il Nord per studiare. Alcuni sono rientrati, come Mimmo Lucano, portando idee nuove per rivitalizzare il paese. Quello che Mimmo ha fatto sarà sicuramente irripetibile, ma c’è la speranza che abbia creato una scuola di pensiero che possa far sopravvivere il modello. Il timore che tutto possa finire è anche la grande paura dello stesso Lucano”.
Pensi che il modello possa essere più o meno facilmente replicabile da altre parti?
“La differenza la fanno le persone. Un modello come questo ha bisogno di tempo e di gente che lo sposi. Non serve necessariamente una cultura, basta l’umanità applicata alla vita reale e un’apertura mentale più sviluppata. È incredibile, pensando agli stereotipi italiani, che argomenti come l’integrazione e l’inclusione si trattino quotidianamente con grande facilità in un paesino dell’entroterra calabrese e non in città più grandi come Milano, Roma, ma anche Perugia”.
Cosa ti ha lasciato l’esperienza a Riace?
“Mi ha lasciato tanto amore, speranza e insofferenza nel posto in cui vivo, perché possa essere migliore di come è ora. Ma anche la speranza che Perugia ed altre città possano diventare come la Riace che ho visto e che mi ha impresso queste sensazioni per il resto della mia vita”.
Commenti disabilitati su “Così sono diventata infermiera in Italia”, una storia di volontà e sacrificio
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Concitta, infermiera di professione da 33 anni. Da diciotto vive a Perugia, dove si è trasferita dall’Ecuador e dove ha trovato la sua seconda casa. L’abbiamo incontrata per farci raccontare…
Concitta, infermiera di professione da 33 anni. Da diciotto vive a Perugia, dove si è trasferita dall’Ecuador e dove ha trovato la sua seconda casa. L’abbiamo incontrata per farci raccontare la sua vita da umbra.
Concitta, da quanto tempo sei in Italia? Cosa fai a Perugia?
“Sono arrivata nel duemila, direttamente a Perugia.
All’inizio ho fatto un lavoro molto bello e onesto: l’assistenza alle persone anziane. Dopodiché mi sono impegnata per raggiungere il mio obiettivo: convalidare la mia laurea presa nel mio Paese, in Ecuador. Dicevo sempre: diventerò infermiera in Italia.”
È stato difficile?
“Non è stato facile non essendo cittadina dell’Unione Europea: ci sono voluti quattro anni e mezzo. E’ stata anche un’importante spesa economica per cui ho sacrificato tutte le cose materiali ed ho lottato prima di tutto per mia figlia, la persona più importante per me. Finché finalmente ricevo una chiamata in cui mi dicono che era arrivato l’attestato del Ministero della Sanità. In quel momento mi sono inginocchiata per strada ed ho ringraziato il Signore. Non mi importava della gente che rideva perché sono molto credente, ma soprattutto perché non mi vergogno delle cose belle. Nella vita niente è regalato e l’essere umano deve lottare”.
E finalmente hai realizzato il tuo sogno
“Ho iniziato un percorso lavorativo viaggiando fuori Perugia, con tanti sacrifici perché lasciavo la mia bambina piccola e non la vedevo mai. Ora ho un lavoro meraviglioso a Perugia che svolgo con tanto amore e passione. Ho lavorato in molti ambiti professionali, ora sono in geriatria e sono capoturno. Mi impegno per creare un bel clima e l’atmosfera giusta donando ‘una mulichina’ (come dice il perugino) di affetto alle persone che soffrono”.
Oltre al lavoro, hai altre passioni?
“Da buona latino-americana mi piace tanto la musica e il ballo, la mia arte preferita è la manualità e il disegno. Mi considero una disegnatrice ed ho anche un canale Youtube: Amor Arte y Pasión de Allure. Mi piace realizzare tanti piccoli oggetti e decorazioni per esempio per le feste. Un giorno mi piacerebbe diventare organizzatrice di eventi e vorrei anche studiare per questo. Lo studio non ha età, quando uno ha volontà”.
Ti piace vivere a Perugia?
“All’inizio è stato difficile perché non conoscevo nessuno, ma la società perugina mi ha accolto e la ringrazio. Un’altra difficoltà è stata la lingua. Non ho mai studiato italiano, l’ho imparato stando in mezzo alla gente e anche la televisione mi ha aiutata molto. La mia prima professoressa, però, è stata la mia figlia. Non la cambierei per niente al mondo. Amo tutto quello che c’è intorno a me, mi trovo e mi sento bene. Ho un bel rapporto con le persone perché uno il rapporto lo crea: nella vita dobbiamo dare per poter ricevere quindi ci dobbiamo comportare bene, seguire le regole e le leggi e ci troveremo bene ovunque. Gli ingredienti fondamentali per stare bene in ogni posto sono il rispetto e l’obbiettivo, perché se uno ha obbiettivi generali e specifici sai sempre dove andare. Mi sento perugina. Perugia mi ha adottata, mia figlia è nata nel mio Paese ma è come se fosse nata a Perugia, parla anche perugino. Anche a me scappa il perugino ogni tanto quando sono con i miei colleghi ormai. Amo Perugia, dopo la mia città originaria è la mia casa”.
Commenti disabilitati su Al Consiglio d’Europa tutti soddisfatti, nessuna soluzione
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Se per caso in questi giorni vi è capitato di accendere la televisione, o il pc, o avete usato facebook, vi sarete probabilmente accorti che per un po’ il tema…
Se per caso in questi giorni vi è capitato di accendere la televisione, o il pc, o avete usato facebook, vi sarete probabilmente accorti che per un po’ il tema del momento è stato il Consiglio Europeo del 28-29 giugno, che ha inaspettatamente – ma neanche tanto – finito per concentrarsi sul “problema” migranti (concedetemi le virgolette: lo chiamerò anche io “problema” dato che il dibattito è sceso fino a questo livello, ma non riesco a prendere sul serio quest’espressione in politichese stretto).
“Ma Bruxelles è in provincia di Perugia o di Terni ora? Cosa c’entra Blog Niù in tutto questo?” C’entra, fidatevi che c’entra come c’entriamo tutti, chi più chi meno… ma andiamo con ordine.
Tutti salvi?
A prima vista, poche cose sembrano chiare di tutto l’avvenimento. La più chiara è che, dopo una notte passata a combattere anche sulle virgole, anche solo il fatto di aver trovato un qualche tipo di accordo deve essere sembrato un miracolo. E infatti al mattino i protagonisti erano tutti soddisfatti: la Francia per aver salvato l’Europa, la Germania per aver salvato il summit, la Spagna per aver salvato i migranti (era successo il giorno prima, speriamo continuino), l’Italia per aver salvato la faccia (ma non proprio), il “gruppo di Visegrad” per aver salvato la loro linea guida del “rimanete fuori che tanto non vi vogliamo”. Se questa soddisfazione generale vi sembra sospetta, non preoccupatevi: avete ragione.
La seconda cosa più chiara è che, almeno sul tema migranti, la notte in bianco non ha portato grandi novità. Non entriamo in tecnicismi, andiamo al succo della questione.
Per iniziare, tutti si sono detti d’accordo su un fatto: se un migrante economico si avvicina all’Europa, deve fare dietrofront, o verrà costretto a farlo. Anche senza contare che l’Italia e gli altri Paesi europei non hanno accordi con tutti i possibili Paesi d’origine di questi migranti, e quindi la soluzione trovata lascia il tempo che trova; sembra che nessuno si renda conto che chi viene fino a qua “solo” per un problema economico lo fa perché effettivamente si trova in enormi difficoltà nel suo Paese. E non stiamo parlando di problemi tipo “non guadagno abbastanza da comprarmi il mio secondo smartphone dell’anno, devo guadagnare di più, vado in Europa”. Ma questo è quello che sembra credere una fetta importante di chi va a votare, e quindi vuoi per mantenersi a galla, vuoi per mantenersi sulla cresta dell’onda, i leader europei non potevano che trovarsi d’accordo almeno su questo punto.
Migranti economici vs. richiedenti asilo
I risultati che danno più da pensare coinvolgono una categoria protetta a livello universale: i migranti che possono richiedere lo status di “rifugiato”, perché per qualche motivo (razziale, etnico, religioso, di preferenze sessuali o politiche) perseguitati nella loro terra. E che decidono di abbandonare tutto per vivere serenamente la loro vita in Europa: patria dei diritti e delle libertà, o almeno così ancora dicono.
Anche loro, come i migranti economici, sono per lo più costretti a fare viaggi impensabili (avete letto la storia di Mamadou?); e anche loro spesso devono rivolgersi a criminali o ad usare mezzi più o meno avventurosi per sperare di raggiungere l’Europa. Una Terra Promessa che però sembra non volere neanche loro: il rifugiato che vede accolta la domanda di protezione internazionale deve rimanere nel Paese che gliel’ha concessa, senza possibilità di trovare un altro posto in cui vivere. Il che vuol dire che se arriva e ottiene la protezione in Italia, non potrà spostarsi più in un altro Paese: se ci prova, viene riportato indietro perché lì (che so, in Austria o in Baviera) alcuni non vogliono avere nulla a che fare con i migranti e preferiscono vederli altrove. Il che, considerando che anche alcuni italiani vorrebbero non avere nulla a che fare con i migranti e preferirebbero mandarli altrove (che so, in Austria o in Baviera), sembra un cane che si morde la coda.
Ma stiamo divagando, torniamo sul pezzo.
Il problema è questo: se i migranti economici non possono entrare, e i rifugiati invece sì, e viaggiano insieme negli stessi barconi o lungo le stesse strade (perché non ci siamo solo noi, ricordiamocelo: chi viene dalla Siria fa un percorso molto diverso e con mezzi diversi rispetto a chi viene dall’Africa, e sono altri i Paesi che vengono attraversati da questa gente); se tutto questo è vero, dicevamo, come capire chi è chi, e se può far valere dei diritti?
Quando la soluzione è peggiore del “problema”
Soluzione numero 1: rifilare la patata bollente ai Paesi di transito, dove esaminare le domande di asilo in strutture apposite, in modo da scoraggiare traversate pericolose. Tutto molto bello, se non fosse per un particolare: alcuni hanno già deciso di rifiutare la gentile proposta del Consiglio europeo, Libia inclusa (forse meglio così: una cosa del genere in posti come la Libia, vista la situazione che vive chi è costretto a passare per i centri di detenzione, ha un non so che di presa in giro). Come si risolve la questione? Convincere questi Paesi sembra complicato; costringerli non suona come un gran piano. Che fare? Silenzio assoluto, nessuna indicazione fino a ottobre, passiamo ad altro.
Soluzione numero 2: i Paesi europei potrebbero costruire dei “centri di identificazione” (diversi da quelli conosciuti, con una punta di ironia o di sadismo, come “centri di accoglienza”) per esaminare le proposte in fretta, tre giorni al massimo, come quelli presenti in Italia e Grecia. Anche se poi alla fine tutta questa velocità non c’è, e con l’efficienza che ci contraddistingue i centri finiscono per “accogliere” sempre più persone, in condizioni sempre peggiori, per periodi sempre più lunghi. Ok, magari in nord Europa la cosa funzionerebbe meglio; ma ne siamo poi sicuri? E se poi la cosa andasse male, cosa ci inventeremo per peggiorare la situazione?
Soprattutto, la parola chiave qui è “potrebbero”: anche su questo punto, nessuno è obbligato. Tanto per dire, Francia e Austria si sono già tirati fuori. Il che significa che, nella speranza che almeno i porti vengano riaperti e ricominci il dialogo con le Ong, si continuerà sulla falsariga seguita finora: lo status di rifugiato potrà essere valutato e richiesto solo nel Paese di arrivo (vedi: Italia, Grecia, Spagna), mentre i migranti nei centri di identificazione aumentano fino a livelli non più sostenibili, sia per i migranti stessi (costretti ad essere accolti nel loro carcere che carcere non è) che per chi vive nella zona (per una questione di percezione del “problema” che problema non è); intanto, i politicanti locali punteranno sul tradimento dell’Europa sul “problema” migranti e sul sempre verde tema dell’”invasione”, e si esacerberanno malumori e pregiudizi nei Paesi (vedi: Italia) in cui questi già stanno montando, con i risultati che sappiamo.
E l’Umbria?
Ora torniamo a noi. Tutti abbiamo vissuto una campagna elettorale fatta più di promesse irrealizzabili, di disinformazione e di facili slogan che di sensibilità verso problemi reali, vissuti da persone reali, e che necessitano di una soluzione reale, o perlomeno realistica. Non chiudere gli occhi (oltre che i porti) davanti alle sofferenze, ma dare una mano d’aiuto (e non le spalle) a chi viene qui per cambiare la propria vita. E la cosa non succede solo in Italia: il Consiglio Europeo dimostra, se ancora non ce ne fossimo accorti, che il Problema (lettera maiuscola, nessuna virgoletta: questa è una cosa seria) è comune, anche se pensiamo di no.
“Sì, ma l’Umbria?”. L’ho già detto, i risultati l’abbiamo già visti, anche qui. Sarà un caso, ma da qualche giorno una certa città ha assunto una tonalità di verde molto particolare…
Commenti disabilitati su Mamma single e straniera, vi racconto la mia vita complicata ma felice
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Una donna soddisfatta vive nel presente ciò che ha sognato una volta Sono Patricia Odia, dalla Repubblica Democratica del Congo. Vivo in Italia da 8 anni, sono una madre single…
Una donna soddisfatta vive nel presente ciò che ha sognato una volta
Sono Patricia Odia, dalla Repubblica Democratica del Congo. Vivo in Italia da 8 anni, sono una madre single di un angelo, come indica il suo nome. Ha 6 anni e fa l’ultimo anno della scuola materna. Sono anche una studentessa al terzo anno di Comunicazione internazionale all’Università per stranieri di Perugia. Sono molto sensibile a tutti gli argomenti relativi agli immigrati e alla loro integrazione in diversi paesi ospitanti. Sono orgogliosa e molto ambiziosa. Molte persone intorno a me mi chiamano femminista, ma io non la penso così, sono solo una ragazza indipendente e contraria agli atteggiamenti maschilisti degli uomini perché credo nelle capacità delle donne. E delle donne africane in particolare.
Patricia è soprattutto una madre, mio figlio è la mia vita e la mia fonte di motivazione
Sono ancora giovane, avrò solo 27 anni a settembre. Alcune circostanze che ho conosciuto e affrontato mi hanno portato ad una situazione che condividerò con voi.
Quello che vorrei dirvi oggi è che mi sento soddisfatta. Non totalmente felice, ma abbastanza appagata nel prendermi cura di me stessa e di mio figlio. Eppure, ogni giorno è difficile. Ho così tanti fardelli sulle mie spalle che a volte vorrei lasciarmi andare e andar via. Ma posso? No, ho delle responsabilità e le affronto a testa alta.
Durante i primi giorni della gravidanza, non avevo smesso di frequentare l’università dove stavo seguendo i miei corsi di lingua italiana. È stato un momento così difficile. Alle fragilità della gravidanza che mi sentivo addosso, si aggiungevano i problemi familiari: i miei mi hanno lasciata da sola perché li avevo disonorati; le difficoltà finanziarie: era mio padre a prendersi cura di me, ma dopo avere saputo della gravidanza, era insopportabile.
A volte mi sono ritrovata da sola a piangere, non sapendo cosa fare e su chi potevo appoggiarmi per dimenticare tutto questo, non avendo nessun al mio fianco, nemmeno i miei genitori. Grazie a Dio ho trovato una zia comprensiva e molto dolce, che mi ha aperto la porta della sua casa, non mi ha causato grossi problemi, al contrario, ho trovato il conforto in lei, ha saputo sostituire la mia mamma, mi è sempre stata vicina nei momenti difficili. Lei e la sua famiglia mi hanno portato restituito la serenità.
È vero che non sembro una giovane donna di 27 anni, ma non sono così vecchia. Alla mia età, molti hanno genitori su cui possono contare e provvedere a loro. E magari trovano un modo per lamentarsi e dire che non è abbastanza. Certo, la mia faccia non può essere piena di candore, dopo quello che ho vissuto e la maternità che lascia le tracce. Se dico qualcosa sulla mia esistenza, non è a causa dell’angoscia, è solo perché non c’è nulla da temere, il peggio è dietro di me. Sono molto sincera, presumo, gli eccessi del mio passato non mi spingono verso idee suicide, al contrario, traggo una forza che mi permette di battere e combattere un percorso che mi porterà ad un futuro migliore.
Non dire mai cose brutte a te stesso, ci sono già abbastanza persone che lo fanno.
La mia vita non è infelice. Nonostante le responsabilità, il lavoro, gli studi, le preoccupazioni. Non mi definisco infelice. Ho trovato la mia strada. E forse disseminata di insidie, ma le affronto in una lunga scalata passo dopo passo. Corro verso la felicità e grazie a Dio non sono ancora caduta in un precipizio.
Se ho saputo superare questa prova e mantenere il mio buon umore che voglio condividere con voi, è solo perché non dobbiamo lasciare che nulla ci tolga la gioia di vivere. Ogni giorno è difficile e a volte non so come arrivare alla fine del mese, ma Dio provvede sempre a modo suo. Dobbiamo solo dire “è una situazione temporanea, domani sarà migliore”.
E tutto questo non è possibile senza fare pace con se stessi e gli altri, essere in grado di perdonare se stessi per aver commesso alcuni errori, essere intrappolati qualche volta e soprattutto essere stati ingenui. Il perdono è un potere che libera. Sono una madre, orgogliosa e soddisfatta. E nessuno potrà mai strapparmi la mia gioia di vivere.
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Sono Mamadou, vengo dal Gambia e ho 24 anni. Il mio viaggio è iniziato a maggio. 10 maggio 2013. Ho lasciato il mio Paese alla volta di Senegal, Mali, Burkina…
Sono Mamadou, vengo dal Gambia e ho 24 anni. Il mio viaggio è iniziato a maggio.
10 maggio 2013. Ho lasciato il mio Paese alla volta di Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Algeria, Libia e Italia.
Ogni paese che ho attraversato ha costituito una differente esperienza di vita ma il luogo peggiore dove sono stato è in Libia.
15 agosto 2013, Agadez, (Niger). Lascio il Niger. Eravamo 24 persone caricate in un pick-up (Toyota) dove stavamo strettissimi. Ai trafficanti non importa se cadi dalla macchina, non si fermerebbero mai, si comportano come se nulla fosse accaduto. Abbiamo passato 8 giorni nel deserto, senza acqua né cibo, con il sole che picchiava fortissimo.
Dopo 5 giorni nel deserto, ricordo che il trafficante ci disse che andava a cercare l’acqua. Dopo molte ore, non era ancora tornato. Abbiamo aspettato tanto tempo. Ad un certo punto, alcuni di noi hanno iniziato a perdere le speranze. Alcuni dicevano che non sarebbe mai tornato, altri che dovevamo andare noi da lui. Dopo aver realizzato che non sarebbe mai tornato indietro, abbiamo iniziato a camminare in piccoli gruppi, senza una direzione. Dopo pochi passi, abbiamo iniziato a vedere corpi morti nel deserto.
In quel momento ho realizzato che dove ci aveva lasciato il trafficante era un punto di abbandono, di non ritorno.
In una situazione del genere, anche se vuoi aiutare qualcuno non puoi. Devi pensare solo a te stesso. Eravamo partiti con un gruppo di 8 persone… ed eravamo rimasti in 4. Dopo giorni di cammino in mezzo al nulla, non si sentiva più nessuno proferire parola, nessuno faceva più domande. Il sole picchiava e continuavamo a vagare senza direzione.
Fortunatamente, durante il tragitto abbiamo incontrato qualcuno. Erano soldati libici che controllavano la zona. Siamo stati salvati e portati in un piccolo centro urbano, lontano da Tripoli, la capitale.
Dopo un mese nella cittadina dove eravamo costretti a lavorare, io e un amico siamo riusciti a raggiungere Tripoli, dove sono rimasto per circa un anno e sette mesi. Durante la mia permanenza, andavo a ‘Chat palace’ un posto che può essere paragonato ad una “sala di attesa” dove si spera di essere assegnati a lavori di fortuna. Pulizie, piccoli lavoretti da elettricisti etc.. molte volte non venivamo neanche retribuiti. Dopo questa esperienza, io ed altre 120 persone abbiamo provato a raggiungere le coste libiche per scappare e venire in Italia. La Libia non era più sicura ed io non potevo tornare indietro. Iniziava la seconda guerra civile libica.
Prima di arrivare alla costa però, siamo stati presi dalla polizia libica e portati in carcere, luogo nel quale sono rimasto per circa tre mesi.
Un giorno ci hanno prelevato dal carcere per rimpatriarci a Sabha, città a sud del paese (la città del ‘rimpatrio’). A Sabha puoi incontrare gli asma boys, ragazzini armati che si divertono a sparare. È uno dei posti più pericolosi della Libia. La polizia libica scortava i tre autobus dove eravamo stati stipati.
Appena la polizia ha girato l’angolo e non ha ci ha seguito più, sono riuscito a scappare lanciandomi dal finestrino. Non sapevo dove fossi, in quale direzione andare. Ad un certo punto ho visto un ragazzo africano e gli ho chiesto di farmi fare una chiamata dal suo cellulare. Ho chiamato un amico a Tripoli e lui ed un suo amico libico sono venuti a prendermi. Sono tornato a vivere a Tripoli dove sono rimasto ancora un mese.
Il Paese però era ancora in preda alla guerra civile, la situazione era peggiorata. Non potevo più stare lì. Così sono andato a vivere a Zuwarah, da dove mi sono imbarcato per l’Italia.
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