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Accoglienza e umanità: come Riace mi ha rapito il cuore

Il modello Riace ha rappresentato un modello di accoglienza funzionante e sicuramente unico nel suo genere in Italia. Ne parliamo con Jasmina, una giovane “seconda generazione” che ha deciso di…

Il modello Riace ha rappresentato un modello di accoglienza funzionante e sicuramente unico nel suo genere in Italia. Ne parliamo con Jasmina, una giovane “seconda generazione” che ha deciso di viverlo sul posto, studiarlo e ora… raccontarcelo.

 

Come hai scoperto il modello Riace e perché te ne sei interessata?

“L’ho scoperto tre anni fa parlando con un mio amico di immigrazione. Mi ha parlato di questa situazione di Riace e mi sono incuriosita. All’epoca il materiale per informarsi era poco, ma l’argomento mi appassionava e sono andata avanti, fino a sceglierlo come argomento di tesi per la mia laurea triennale.

L’idea che ci fosse un paese di 2000 anime (anzi, molte di meno) che abbia accolto e fatto un’esperienza del genere è sorprendente”.

Parlaci un po’ della tua esperienza

“Sono stata giù due volte. A febbraio 2018 è stato un po’ più difficile perché c’era meno gente e il primo impatto con i calabresi è stato tosto. Poi ho capito che in realtà sono persone che quando ti conoscono ti danno tutto. E da qui ho cominciato a vivere secondo il loro stile: con ritmi solari, più compassati, senza preoccuparsi troppo se il pullman passa in ritardo o no. A quel punto osservavo molto durante la giornata e parlavo tanto con la gente, con chiunque”.

In sintesi, cosa aveva di particolare rispetto al sistema “standard”? In cosa consisteva il quid che lo rendeva diverso da altri?

“Ho paragonato Riace con altri modelli di accoglienza europei (ad esempio, le banlieu parigine) come argomento della mia tesi triennale. Riace è un modello che parte dal basso, con un’accoglienza spontanea partita dalla gente che voleva andare incontro a persone in situazione di disagio. Non è partito da un progetto calato dall’alto, dalla politica, è forse questo è stato il suo successo”.

È vero che il modello Riace era molto conosciuto anche fuori dall’Italia?

“Due anni fa il modello Riace era molto più conosciuto all’estero che in Italia, tanto che il sindaco Domenico Lucano venne inserito dalla rivista Fortune tra le 50 personalità più influenti al mondo. A Riace sono arrivati Ada Colau, sindaco di Barcellona, e il municipio di Parigi a sostenere questo modello. Sono giunti persino dei cinesi a studiarlo. In Francia addirittura esiste una radio che ha una rubrica settimanale in cui 30 minuti a settimana parlano di Riace come modello funzionante di integrazione”.

 

Come si sosteneva il modello Riace?

“I fondi per portare avanti il tutto arrivavano da progetti europei, gestiti poi dalla prefettura. Negli ultimi tempi, verso luglio, c’era più difficoltà per questi fondi erano bloccati e molti esercenti erano in difficoltà. La cosa particolare era che nei paesi vicini a Riace i fondi per attività simili erano arrivati, e questo lasciava pensare perciò a un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote al progetto stesso”.

E sul piano concreto come si è sviluppato questo modello?

“A Riace ci sono diversi SPRAR (Sistema protezione per richiedenti asilo e rifugiati), uno dei quali per minori non accompagnati, assistiti da mediatori culturali, operatori e altre figure professionali dedicate. C’erano molte case abbandonate, causa del trasferimento dei suoi abitanti storici verso il Nord. Lucano ha chiamato uno ad uno i vecchi proprietari, convincendoli a riaffittare queste case anche a canoni bassi, che vengono pagati dall’Associazione Città Futura che gestisce tutto il progetto che conosciamo. Sono case molto vecchie, semplici, non lussuose, ma ora sono tutte abitati e permette ai migranti di vivere con una dignità che non possono avere nei centri di accoglienza. Gli stessi soldi per la sussistenza vengono affidati direttamente ai migranti, che così possono fare la loro spesa e non essere dipendenti da altri. E queste semplici accortezza danno autonomia, permettono ai migranti di conoscere la gente che va a fare spesa e gli stessi esercenti, così come il contadino che porta i prodotti agricoli con il suo carretto su in paese. In questo modo si può fare vera integrazione”.

Quale era l’opinione su questo modello degli abitanti del posto?

“Parlando con i Riacesi storici, l’arrivo di migranti non ha scombussolato nulla nella loro comunità, è stato semplicemente un arricchimento. Infatti, considerando che Riace aveva un futuro di desolazione, con gli immigrati si è sicuramente arricchita. La moneta locale creata per favorire l’economia degli esercenti locali ha contribuito a far rifiorire o continuare le loro attività, soprattutto a Riace Alta (nella parte bassa c’è più la grande distribuzione). Un esempio è la riapertura del bar della piazza centrale di Riace Alta da parte di un ragazzo locale, erede della famiglia che aveva il bar anni fa, che è tornato a Riace anche su proposta di Lucano, ed ora il bar vive come una volta”.

Come definiresti il rapporto tra locali e stranieri?

“Non c’è mai stato uno scontro, anzi litigano molto più tra i Riacesi che con gli immigrati. Ci sono sempre oppositori, ma sono la minoranza. I bambini vanno a giocare sulla terrazza degli anziani. Ci sono tanti bambini, fanno confusione e animano il paese. I piccoli nati qua da donne migranti hanno quasi tutti nomi italiani, alcuni addirittura parlano il dialetto locale. I bambini sono accomunati dal gioco, la differenza del colore della pelle non esiste, sono come fratelli”.

Vuoi parlarci di un momento, un episodio legato alla tua esperienza a Riace?

“Lì è tutto un episodio. Per dire, il sindaco conosce tutti i bambini e loro sono affezionatissimi a lui. Gira in t-shirt, gioca con i bambini, ci parla, li sgrida. È un po’ come un padre, e molti di questi bambini sono arrivati qua solo con le madri, per cui cercano in lui quella figura paterna che ora gli manca”.

Hai vissuto qualche situazione in cui si è più manifestata la bontà del modello Riace?

“Ti faccio un esempio. Una storica “vecchietta” di Riace, vedova, è contentissima di tutto questo, perché vede molti bambini ed ha gente che le fa sempre compagnia. Addirittura molte ragazze straniere vanno da lei, cucinano e mangiano insieme. Ci sono anche molte persone un po’ scorbutiche, ma i mugugni rimangono per conto loro. Al Sud l’ospitalità è sacra, e Riace lo ha testimoniato in pieno. Un giorno ho visto poi una scena che mi ha commosso: un abbraccio tra un piccolo bambino nero e un bambino riacese più grande e alto. Una scena tanto spontanea quanto strana nei nostri contesti”.

Quali sono le storie dei migranti di Riace?

“I migranti arrivavano soprattutto dall’Africa subsahariana, attraverso un viaggio lungo, tormentato e molto costoso (circa 1700-2000€, che sono tanti per noi, figurarsi per loro). Mi impressionò il racconto di una donna, che attraversò il deserto con il figlio di 3 anni e lì decise che sarebbe morta. Il figlio l’ha spinta ad andare avanti e nonostante altre peripezie (gommone scoppiato, figlio con un braccio rotto e pesantemente infettato), ora vivono tranquillamente a Riace. Un’altra ragazza che ho intervistato è stata separata dal marito in Libia, quando lei era incinta. È venuta a sapere poco dopo che il marito era diventato schiavo. Lei è arrivata in Italia, sono due anni che non lo sente e non sa più nulla di lui. Lei soffre molto anche sono nel raccontare queste cose. Ed io soffrivo con loro nel sentirle”.

C’è qualcosa che vorresti cambiare o evitare che accada a Riace?

“Mi darebbe fastidio che qualcuno da turista, andasse a Riace per vedere i migranti. Per farvi capire, a febbraio visitai la scuola di Riace, ora chiusa perché non si riesce a trovare il numero minimo di ragazzi per le aule. La situazione è molto diversa e meno formale, perché all’interno ci sono anche persone di 20 o 30 anni, a cui a volte è difficile dire cosa fare. Quando, con un’altra ragazza, ci fecero entrare in classe per farci vedere come funzionava il tutto mi ricordo che una ragazza ci vide e abbassò lo sguardo, vergognandosi tantissimo. Lei probabilmente si è sentita come un’attrazione, ed io mi sono sentita male per lei, uscendo immediatamente dalla classe. E sinceramente, se a me qualcuno mi fosse venuto a vedere a scuola come se fossimo allo zoo, mi avrebbe dato tanto fastidio, per cui ho capito appieno la sua reazione”.

Quanto ha influito sul modello Riace la figura di Domenico Lucano?

“Sicuramente molto. Mimmo (così lo chiama Jasmina, ndr) è una persona spontanea, e lo si nota tranquillamente dalle interviste che gli sono sempre state fatte. È uno spirito libero, a tratti anarchico, ma agisce sempre pensando, e facendo quanto in suo potere per portare avanti le sue attività, a volte scontrandosi anche con la lenta burocrazia italiana. È una persona molto colta, che ha vissuto anche fuori dalla Calabria e che ha voluto riportare qui certi valori come l’accoglienza, la solidarietà, la lotta alla criminalità (le stesse vie del paese sono in gran parte dedicate a vittime di mafia e ‘ndrangheta). Da queste idee rese concrete nasce, anzi rinasce, Riace”.

Quindi pensi che ora tutto questo possa finire?

“Gli immigrati hanno portato vitalità. Riace era abbastanza desolato, vittima di uno spopolamento dovuto ai trasferimenti di ragazzi verso il Nord per studiare. Alcuni sono rientrati, come Mimmo Lucano, portando idee nuove per rivitalizzare il paese. Quello che Mimmo ha fatto sarà sicuramente irripetibile, ma c’è la speranza che abbia creato una scuola di pensiero che possa far sopravvivere il modello. Il timore che tutto possa finire è anche la grande paura dello stesso Lucano”.

Pensi che il modello possa essere più o meno facilmente replicabile da altre parti?

“La differenza la fanno le persone. Un modello come questo ha bisogno di tempo e di gente che lo sposi. Non serve necessariamente una cultura, basta l’umanità applicata alla vita reale e un’apertura mentale più sviluppata. È incredibile, pensando agli stereotipi italiani, che argomenti come l’integrazione e l’inclusione si trattino quotidianamente con grande facilità in un paesino dell’entroterra calabrese e non in città più grandi come Milano, Roma, ma anche Perugia”.

Cosa ti ha lasciato l’esperienza a Riace?

“Mi ha lasciato tanto amore, speranza e insofferenza nel posto in cui vivo, perché possa essere migliore di come è ora. Ma anche la speranza che Perugia ed altre città possano diventare come la Riace che ho visto e che mi ha impresso queste sensazioni per il resto della mia vita”.

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