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Tiàwuk: alla scoperta di un nuovo pianeta. Il viaggio di Gabriele Cecconi tra realtà e finzione

Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione…

Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione Istanti, il fotografo ci ha raccontato della sua esperienza in Kuwait e di come sia maturata l’idea di creare un progetto fotografico in grado di restituire la complessità di un mondo “distopico” e di un Paese caratterizzato da un modello islamico contrapposto ad un sistema capitalista.

“Ho conosciuto il Kuwait tramite una minoranza etnica e così è stato possibile raccontare il mondo arabo andando oltre gli stereotipi che vengono attribuiti dal mondo occidentale. Ero interessato a come le persone vivono in un ambiente dove da un punto di vista estetico realtà e finzione sono due facce della stessa medaglia”.

L’esperienza in Kuwait ha consentito a Gabriele di documentare un Paese dalle molteplici contraddizioni, dove gli eccessi e la ricchezza economica lo caratterizzano. Ne sono testimonianza la raccolta di foto che ci ha presentato.

“Sono stato ospitato da un ricco kuwatiano che nella sua sfarzosissima villa teneva un ghepardo come fosse un gattino. Lì per lì ho avuto anche un po’ di paura non essendomi mai trovato così vicino un animale del genere”.

Il progetto di Gabriele ci ha permesso di “viaggiare” attraverso il suo approccio e linguaggio fotografico in un Paese così diverso e così surreale che solo i sui scatti ne colgono la complessità e ne attribuisco un profondo significato che lascia riflettere sulla natura umana e sulla sua fragilità interiore.

Kuwait City, Emirate of Kuwait, 13/03/2019 – A cheetah is seen inside a private house. After raising a lion for 3 years, the owners now takes care of two cheetahs that roam freely around the living room of his house. Despite it’s now illegal to own wild animals, there is still a lot of Kuwaiti citizens who. want them as a form of obstentation and status. Ph Gabriele Cecconi

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Community Action: partecipare al cambiamento

Come partecipare al cambiamento di una comunità? È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra…

Come partecipare al cambiamento di una comunità?

È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra le diverse attività e azioni da intraprendere.

Nel mio caso, grazie alla partecipazione al progetto europeo DREAMM. L’esperienza mi sta facendo scoprire la bellezza e la complessità di lavorare una comunità diversa che lavora per un obiettivo comune: una società più inclusiva e multiculturale.

L’ultimo task all’ordine del giorno è la creazione di uno spazio comune, interculturale, accogliente, dinamico ed aperto a tutti.

La call to action per la creazione di un Community Space innovativo mira a realizzare lo spazio partendo dai bisogni e dalle idee della popolazione locale.

Per ascoltare le voci della comunità locale sono pensati diversi appuntamenti, per favorire il coinvolgimento e la partecipazione attiva della popolazione della zona.

Il primo evento sarà Mercoledì 20 Aprile 2022, alle ore 16.00 presso l’Aula V del Dipartimento di Fissuf, Piazza Giuseppe Ermini 1, Perugia.

Curioso di essere dei nostri?

Be the change you wish to see in the world!

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Insieme verso un sogno condiviso: DREAMM

“A dream you dream alone is only a dream. A dream you dream together is reality.”John Lennon Oggi voglio condividere con voi un progetto, che in sé è un’esperienza, un’opportunità…

“A dream you dream alone is only a dream. A dream you dream together is reality.”
John Lennon

Oggi voglio condividere con voi un progetto, che in sé è un’esperienza, un’opportunità di mettersi in gioco, di crescita, di apprendimento informale, di riflessione e anche molto di più: il progetto DREAMM.

Come si può intuire dal nome, il termine deriva dall’inglese dream e significa sogno/ sognare. DREAMM è il nome del progetto europeo per l’integrazione e la promozione interculturale tra la comunità locale e i migranti appena arrivati, i third country nationals (TCNs).
Per lo stesso principio per cui i sogni prendono vita se condivisi dai più, ecco che dream diventa DREAMM, per inglobare nell’identità del progetto la sua parte innovativa.

La doppia consonante ha così una valenza figurativa, per includere sia i Mentors appartenenti alla comunità locale, sia i Migrants, beneficiari del progetto – TCNs.

Come si svolge il progetto? Cosa c’è di innovativo?

Semplice! La creazione di una rete di volontari, i mentors, appartenenti alla comunità locale, disponibili a supportare i migranti nelle sfide quotidiane della società d’arrivo. Ciò avviene tramite un processo d’orientamento sociale che si sviluppa come una relazione di mentorship peer-to-peer che permette una crescita e arricchimento bi-direzionale.

Le figure del progetto sono: lead mentors, mentors, Third countries nationals.
I lead mentors sono perlopiù professionisti attivi nel settore dell’accoglienza, con esperienza nel sociale, a supporto dei mentors.
I mentors sono giovani ragazzi, studenti universitari, donne, seconde generazioni.. insomma chiunque sia motivato e interessato ad intraprendere un percorso di arricchimento attraverso l’interazione interculturale.
I Third countries nationals, beneficiari ultimi del progetto, sono i cittadini di Paesi terzi presenti nella comunità locale, all’inizio del loro percorso d’inserimento nella società d’arrivo.

Il progetto ha portata internazionale ed è già attivo in altri 6 Stati Europei.

Io sono già una mentor.. Potresti scegliere di diventarlo anche te! Curioso di saperne di più?

Ti aspetto mercoledì pomeriggio dalle 15.00 alle 17.00 in via della Viola 1, PG, nella sede di CIDIS Onlus, per l’appuntamento settimanale del “One Roof Community Meetup!

Vieni con noi in un viaggio alternativo attraverso lingue, culture, e Paesi diversi, nell’attesa di poter tornare a viaggiare davvero!

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Sport e tecnologia: i sogni di successo di Kevin

In un mondo sempre più multiculturale, facciamo quattro chiacchiere con Kevin, un ragazzo come tanti suoi coetanei, con diversi interessi e sogni nel cassetto. Un “nuovo umbro” di Terni, ma il…

In un mondo sempre più multiculturale, facciamo quattro chiacchiere con Kevin, un ragazzo come tanti suoi coetanei, con diversi interessi e sogni nel cassetto. Un “nuovo umbro” di Terni, ma il cui spazio è il mondo!

Ciao Kevin, presentati in due parole.

“Ciao, il mio nome è Kevin, ho 17 anni. Sono nato in Italia ma ho origini albanesi. Frequento l’istituto tecnico commerciale di Terni Federico Cesi e ultimamente ho vissuto una bellissima esperienza di Erasmus+ in Spagna.”

So che sei appassionato di sport, vero?

“Sì, esatto. In generale amo tutti gli sport ma soprattutto adoro il calcio e il basket. Gioco a calcio nella squadra juniores del Massa Martana come centrocampista centrale; siamo un gruppo molto affiatato, ed infatti stiamo lottando per i primi posti della classifica. Oltre a questo i pomeriggi liberi mi piace passarli giocando a basket con i miei amici; seguo molto il campionato americano NBA e tifo i Golden State Warriors.”

Quali altri interessi hai?

“Posso dire che mi interesso molto di tutto ciò che riguarda i sistemi informatici. Mi piace divertirmi con il mio computer utilizzando software e sistemi operativi di vario genere.”

Tecnicamente tu potresti essere definito un italiano di seconda generazione. Che cosa significa per te essere una “seconda generazione”?

“Sì, credo che sia il termine che più mi si addice. Per me essere una seconda generazione vuol dire essere un mix di due culture e tradizioni diverse che diventano un tutt’uno, ed è una condizione che secondo me col tempo diverrà sempre più comune.”

Ti senti più italiano, albanese o entrambi allo stesso modo?

“Direi entrambi allo stesso modo. Non riesco a definirmi un italiano puro, viste le mie origini, ma allo stesso tempo non sono interamente albanese dato che sono cresciuto in un’altra nazione, che ha principi e tradizioni molto diverse.”

Questa situazione ti ha mai dato problemi nei confronti di altre persone?

“Per ora no, sia a scuola che nella mia squadra non ho mai avuto problemi per questa condizione. Forse perché solitamente sono circondato da persone mentalmente aperte e con un pensiero giovane, e anche perché quelli che non mi conoscono credono tutti che io sia italiano, anche a causa del mio cognome (Doga, ndr).”

Nella tua comunità (scuola, amici, compagni di squadra, ecc.) ci sono tanti stranieri e seconde generazioni?

“Dove vivo ci sono molte seconde generazioni, almeno da parte di uno dei due genitori, sia a scuola che nella mia squadra e tra i miei amici sono molti coloro che provengono da altri Paesi.”

Come definiresti Terni, la città in cui vivi, dal punto di vista dell’integrazione e dell’inclusione?

“A Terni, come in tutte le altre città, sono presenti persone con modi di pensare diversi ma nonostante ciò dal punto di vista dell’inclusione e dell’integrazione non credo ci sia moltissimi problemi, anche se ultimamente si sono formati molti gruppetti di persone e amici stretti che escludono chiunque non faccia parte di loro.”

Secondo te cosa possono dare le seconde generazioni alle comunità di città e paesi di un territorio come l’Umbria?

“Credo che, nonostante le origini, queste persone possano portare avanti le tradizioni del bellissimo territorio umbro. Ma dall’altra parte possono introdurre quel tocco di diversità sia nelle città più grandi che nei piccoli paesi con tutto ciò che hanno appresso dai genitori e dai parenti.”

Quali sono i tuoi sogni e progetti per il futuro?

“Il mio sogno è quello di trovare un lavoro che sia correlato al mondo dello sport, magari proprio nella NBA. I miei progetti invece sono quelli di riuscire a frequentare l’università in una delle città più importanti a livello accademico, come Bologna o Torino, e se mi trovo bene trasferirmi là per avere più possibilità di trovare un lavoro bello e gratificante.”

Chiudiamo con una gioco, la “10 years challenge” al contrario: dove ti vedi tra 10 anni?

“Tra dieci anni immagino di lavorare in un’azienda che si occupa di sicurezza informatica a Torino, e magari nel frattempo di giocare in una squadra semi professionistica di calcio della città per tenermi in forma.”

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Accoglienza e umanità: come Riace mi ha rapito il cuore

Il modello Riace ha rappresentato un modello di accoglienza funzionante e sicuramente unico nel suo genere in Italia. Ne parliamo con Jasmina, una giovane “seconda generazione” che ha deciso di…

Il modello Riace ha rappresentato un modello di accoglienza funzionante e sicuramente unico nel suo genere in Italia. Ne parliamo con Jasmina, una giovane “seconda generazione” che ha deciso di viverlo sul posto, studiarlo e ora… raccontarcelo.

 

Come hai scoperto il modello Riace e perché te ne sei interessata?

“L’ho scoperto tre anni fa parlando con un mio amico di immigrazione. Mi ha parlato di questa situazione di Riace e mi sono incuriosita. All’epoca il materiale per informarsi era poco, ma l’argomento mi appassionava e sono andata avanti, fino a sceglierlo come argomento di tesi per la mia laurea triennale.

L’idea che ci fosse un paese di 2000 anime (anzi, molte di meno) che abbia accolto e fatto un’esperienza del genere è sorprendente”.

Parlaci un po’ della tua esperienza

“Sono stata giù due volte. A febbraio 2018 è stato un po’ più difficile perché c’era meno gente e il primo impatto con i calabresi è stato tosto. Poi ho capito che in realtà sono persone che quando ti conoscono ti danno tutto. E da qui ho cominciato a vivere secondo il loro stile: con ritmi solari, più compassati, senza preoccuparsi troppo se il pullman passa in ritardo o no. A quel punto osservavo molto durante la giornata e parlavo tanto con la gente, con chiunque”.

In sintesi, cosa aveva di particolare rispetto al sistema “standard”? In cosa consisteva il quid che lo rendeva diverso da altri?

“Ho paragonato Riace con altri modelli di accoglienza europei (ad esempio, le banlieu parigine) come argomento della mia tesi triennale. Riace è un modello che parte dal basso, con un’accoglienza spontanea partita dalla gente che voleva andare incontro a persone in situazione di disagio. Non è partito da un progetto calato dall’alto, dalla politica, è forse questo è stato il suo successo”.

È vero che il modello Riace era molto conosciuto anche fuori dall’Italia?

“Due anni fa il modello Riace era molto più conosciuto all’estero che in Italia, tanto che il sindaco Domenico Lucano venne inserito dalla rivista Fortune tra le 50 personalità più influenti al mondo. A Riace sono arrivati Ada Colau, sindaco di Barcellona, e il municipio di Parigi a sostenere questo modello. Sono giunti persino dei cinesi a studiarlo. In Francia addirittura esiste una radio che ha una rubrica settimanale in cui 30 minuti a settimana parlano di Riace come modello funzionante di integrazione”.

 

Come si sosteneva il modello Riace?

“I fondi per portare avanti il tutto arrivavano da progetti europei, gestiti poi dalla prefettura. Negli ultimi tempi, verso luglio, c’era più difficoltà per questi fondi erano bloccati e molti esercenti erano in difficoltà. La cosa particolare era che nei paesi vicini a Riace i fondi per attività simili erano arrivati, e questo lasciava pensare perciò a un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote al progetto stesso”.

E sul piano concreto come si è sviluppato questo modello?

“A Riace ci sono diversi SPRAR (Sistema protezione per richiedenti asilo e rifugiati), uno dei quali per minori non accompagnati, assistiti da mediatori culturali, operatori e altre figure professionali dedicate. C’erano molte case abbandonate, causa del trasferimento dei suoi abitanti storici verso il Nord. Lucano ha chiamato uno ad uno i vecchi proprietari, convincendoli a riaffittare queste case anche a canoni bassi, che vengono pagati dall’Associazione Città Futura che gestisce tutto il progetto che conosciamo. Sono case molto vecchie, semplici, non lussuose, ma ora sono tutte abitati e permette ai migranti di vivere con una dignità che non possono avere nei centri di accoglienza. Gli stessi soldi per la sussistenza vengono affidati direttamente ai migranti, che così possono fare la loro spesa e non essere dipendenti da altri. E queste semplici accortezza danno autonomia, permettono ai migranti di conoscere la gente che va a fare spesa e gli stessi esercenti, così come il contadino che porta i prodotti agricoli con il suo carretto su in paese. In questo modo si può fare vera integrazione”.

Quale era l’opinione su questo modello degli abitanti del posto?

“Parlando con i Riacesi storici, l’arrivo di migranti non ha scombussolato nulla nella loro comunità, è stato semplicemente un arricchimento. Infatti, considerando che Riace aveva un futuro di desolazione, con gli immigrati si è sicuramente arricchita. La moneta locale creata per favorire l’economia degli esercenti locali ha contribuito a far rifiorire o continuare le loro attività, soprattutto a Riace Alta (nella parte bassa c’è più la grande distribuzione). Un esempio è la riapertura del bar della piazza centrale di Riace Alta da parte di un ragazzo locale, erede della famiglia che aveva il bar anni fa, che è tornato a Riace anche su proposta di Lucano, ed ora il bar vive come una volta”.

Come definiresti il rapporto tra locali e stranieri?

“Non c’è mai stato uno scontro, anzi litigano molto più tra i Riacesi che con gli immigrati. Ci sono sempre oppositori, ma sono la minoranza. I bambini vanno a giocare sulla terrazza degli anziani. Ci sono tanti bambini, fanno confusione e animano il paese. I piccoli nati qua da donne migranti hanno quasi tutti nomi italiani, alcuni addirittura parlano il dialetto locale. I bambini sono accomunati dal gioco, la differenza del colore della pelle non esiste, sono come fratelli”.

Vuoi parlarci di un momento, un episodio legato alla tua esperienza a Riace?

“Lì è tutto un episodio. Per dire, il sindaco conosce tutti i bambini e loro sono affezionatissimi a lui. Gira in t-shirt, gioca con i bambini, ci parla, li sgrida. È un po’ come un padre, e molti di questi bambini sono arrivati qua solo con le madri, per cui cercano in lui quella figura paterna che ora gli manca”.

Hai vissuto qualche situazione in cui si è più manifestata la bontà del modello Riace?

“Ti faccio un esempio. Una storica “vecchietta” di Riace, vedova, è contentissima di tutto questo, perché vede molti bambini ed ha gente che le fa sempre compagnia. Addirittura molte ragazze straniere vanno da lei, cucinano e mangiano insieme. Ci sono anche molte persone un po’ scorbutiche, ma i mugugni rimangono per conto loro. Al Sud l’ospitalità è sacra, e Riace lo ha testimoniato in pieno. Un giorno ho visto poi una scena che mi ha commosso: un abbraccio tra un piccolo bambino nero e un bambino riacese più grande e alto. Una scena tanto spontanea quanto strana nei nostri contesti”.

Quali sono le storie dei migranti di Riace?

“I migranti arrivavano soprattutto dall’Africa subsahariana, attraverso un viaggio lungo, tormentato e molto costoso (circa 1700-2000€, che sono tanti per noi, figurarsi per loro). Mi impressionò il racconto di una donna, che attraversò il deserto con il figlio di 3 anni e lì decise che sarebbe morta. Il figlio l’ha spinta ad andare avanti e nonostante altre peripezie (gommone scoppiato, figlio con un braccio rotto e pesantemente infettato), ora vivono tranquillamente a Riace. Un’altra ragazza che ho intervistato è stata separata dal marito in Libia, quando lei era incinta. È venuta a sapere poco dopo che il marito era diventato schiavo. Lei è arrivata in Italia, sono due anni che non lo sente e non sa più nulla di lui. Lei soffre molto anche sono nel raccontare queste cose. Ed io soffrivo con loro nel sentirle”.

C’è qualcosa che vorresti cambiare o evitare che accada a Riace?

“Mi darebbe fastidio che qualcuno da turista, andasse a Riace per vedere i migranti. Per farvi capire, a febbraio visitai la scuola di Riace, ora chiusa perché non si riesce a trovare il numero minimo di ragazzi per le aule. La situazione è molto diversa e meno formale, perché all’interno ci sono anche persone di 20 o 30 anni, a cui a volte è difficile dire cosa fare. Quando, con un’altra ragazza, ci fecero entrare in classe per farci vedere come funzionava il tutto mi ricordo che una ragazza ci vide e abbassò lo sguardo, vergognandosi tantissimo. Lei probabilmente si è sentita come un’attrazione, ed io mi sono sentita male per lei, uscendo immediatamente dalla classe. E sinceramente, se a me qualcuno mi fosse venuto a vedere a scuola come se fossimo allo zoo, mi avrebbe dato tanto fastidio, per cui ho capito appieno la sua reazione”.

Quanto ha influito sul modello Riace la figura di Domenico Lucano?

“Sicuramente molto. Mimmo (così lo chiama Jasmina, ndr) è una persona spontanea, e lo si nota tranquillamente dalle interviste che gli sono sempre state fatte. È uno spirito libero, a tratti anarchico, ma agisce sempre pensando, e facendo quanto in suo potere per portare avanti le sue attività, a volte scontrandosi anche con la lenta burocrazia italiana. È una persona molto colta, che ha vissuto anche fuori dalla Calabria e che ha voluto riportare qui certi valori come l’accoglienza, la solidarietà, la lotta alla criminalità (le stesse vie del paese sono in gran parte dedicate a vittime di mafia e ‘ndrangheta). Da queste idee rese concrete nasce, anzi rinasce, Riace”.

Quindi pensi che ora tutto questo possa finire?

“Gli immigrati hanno portato vitalità. Riace era abbastanza desolato, vittima di uno spopolamento dovuto ai trasferimenti di ragazzi verso il Nord per studiare. Alcuni sono rientrati, come Mimmo Lucano, portando idee nuove per rivitalizzare il paese. Quello che Mimmo ha fatto sarà sicuramente irripetibile, ma c’è la speranza che abbia creato una scuola di pensiero che possa far sopravvivere il modello. Il timore che tutto possa finire è anche la grande paura dello stesso Lucano”.

Pensi che il modello possa essere più o meno facilmente replicabile da altre parti?

“La differenza la fanno le persone. Un modello come questo ha bisogno di tempo e di gente che lo sposi. Non serve necessariamente una cultura, basta l’umanità applicata alla vita reale e un’apertura mentale più sviluppata. È incredibile, pensando agli stereotipi italiani, che argomenti come l’integrazione e l’inclusione si trattino quotidianamente con grande facilità in un paesino dell’entroterra calabrese e non in città più grandi come Milano, Roma, ma anche Perugia”.

Cosa ti ha lasciato l’esperienza a Riace?

“Mi ha lasciato tanto amore, speranza e insofferenza nel posto in cui vivo, perché possa essere migliore di come è ora. Ma anche la speranza che Perugia ed altre città possano diventare come la Riace che ho visto e che mi ha impresso queste sensazioni per il resto della mia vita”.

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Aspetta, ma tu sei musulmana? La religione (e l’assenza di essa) in Albania

A volte, quando si discute di religione in gruppo o quando rifiuto qualche pizzetta al salame e formaggio agli aperitivi, i miei interlocutori mi chiedono “aspetta, ma tu sei musulmana?!?”…

A volte, quando si discute di religione in gruppo o quando rifiuto qualche pizzetta al salame e formaggio agli aperitivi, i miei interlocutori mi chiedono “aspetta, ma tu sei musulmana?!?” con l’espressione un po’ stupita di chi non riesce ad associare l’Islam alla ragazza pallida con i capelli chiari che hanno davanti.

Per rispondere ho due opzioni che utilizzo in base all’interesse di chi mi ascolta:

a) Opzione breve: Non sono musulmana, non mangio la pizzetta, non mi piace il formaggio.

b) Spiegone: Non sono musulmana, il fatto che sia albanese si collega poco con la religione. In Albania la religiosità delle persone è molto più variegata rispetto che in Italia. Non è detto che un albanese sia musulmano né che, anche se si dice tale, segua le norme dell’Islam che tutti conosciamo (bla bla bla…).

Per chi tra voi si considera uno dei miei interlocutori interessati a cos’ha di strano la religiosità in Albania rispetto alla religiosità in Italia (ma diciamo anche rispetto al resto del mondo) ecco qua il mio spiegone scritto nel dettaglio. Enjoy!

Dati statistici sulla religione in Albania

Attualmente non esiste un censimento ufficiale fornito dallo Stato albanese e i dati che ho trovato su internet non mi convincono quindi ecco i miei grossolani dati personali:

In Albania è presente una maggioranza di musulmani, seguiti da una forte minoranza ortodossa e dai cattolici. Secondo alcune indagini della CIA molte persone si dicono atee, addirittura quasi la maggioranza del Paese. Tutti questi credo religiosi (ateismo compreso) sono perfettamente integrati tra loro e venendo in Albania noterete sicuramente la presenza di chiese e moschee a pochissima distanza l’una dall’altra. In più occasioni, durante i miei soggiorni nel Paese delle Aquile, ho sentito suonare assieme le campane e i richiami del Muezzin.

I religiosi praticanti sono presenti soprattutto tra gli ortodossi ma non sono molti, specie se confrontati con il numero dei credenti praticanti di molti altri paesi.

Come credono gli albanesi

Nella mia personalissima esperienza non ho mai incontrato un albanese musulmano che fosse il tipo di credente islamico che tutti noi conosciamo: niente ramadan, niente cinque preghiere al giorno e guai a togliere il maiale dall’alimentazione! Ho notato che spesso dire ‘sono musulmano’ in Albania è quasi un’altra maniera di dire ‘vengo da una famiglia albanese che è stata musulmana’ e, chi tra loro crede in un potere spirituale superiore, normalmente non lo chiama né Allah né Dio.

Gli ortodossi sono già dei credenti più fervidi, chi più chi meno, ma anche loro hanno meno riti e “formalità” religiose rispetto agli ortodossi di altri paesi.

Discriminazioni

In Albania non ho mai visto né sentito nessuno discriminare gli altri per il loro credo religioso. Semplicemente non importa. Sposarsi tra ortodossi e musulmani è più che normale e non è un fenomeno che accade di rado: ci si sposa in Comune, si festeggia secondo le tradizioni albanesi (oppure inizia a prendere piede anche la tendenza del mega-pranzo all’italiana) e il problema non si pone.

Sicuramente influiscono gli anni di regime comunista trascorsi dal Paese che hanno proibito ogni forma di religione e che hanno “diluito” la fede di molte persone, ma resta il fatto che il modo di praticare la propria fede in Albania è molto rilassato e libero da ogni forma di preconcetto.

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How to: comunicare positivamente l’immigrazione

Se siete approdati su questa pagina, qualunque siano le vostre posizioni sull’immigrazione, vi sarete sicuramente lamentati di una cosa: l’immigrazione viene comunicata male. Scrivo questo articolo perché sono d’accordo con…

Se siete approdati su questa pagina, qualunque siano le vostre posizioni sull’immigrazione, vi sarete sicuramente lamentati di una cosa: l’immigrazione viene comunicata male.
Scrivo questo articolo perché sono d’accordo con voi. Tutti noi, e non parlo solo di media e social network, stiamo facendo degli sbagli quando parliamo di immigrazione:

Una piccola verità sugli immigrati per continuare la lettura                           L’8% della popolazione residente in Italia è composta da immigrati. No, non il 30% come dicono sempre i sondaggi. Sono un po’ pochini per usare paroloni come di “invasione di migranti”, non trovate? Vi dirò di più: la maggior parte di questo 8% sono persone appartenenti al ceto medio del loro paese che vengono qui in maniera completamente legale per costruire un futuro migliore ai loro figli. Insomma, sono persone che ci somigliano: alzi la mano chi tra voi non ha mai pensato di trasferirsi all’estero per ottenere un lavoro migliore.
Aggiungo un ultimo dato a conclusione di questo paragrafo: gli immigrati, con il loro lavoro, producono quasi il 9% del PIL nazionale. La ricchezza generata da questo 8% di popolazione va poi a supportare le pensioni dei numerosi anziani residenti in questo Paese/di nonni e genitori italiani.

Ma se i dati esatti sull’immigrazione sono questi allora perchè si diffondono notizie ben più negative?
Non si sa se sia l’amore o l’odio la forza a muovere questo mondo: quel che purtroppo pare essere certo è che l’odio fa più notizia. Se a ciò si aggiunge il potere di amplificazione di internet diventa questione di un attimo indignarsi perché Samuel L. Jackson se ne sta “svaccato” su una panchina a Forte dei Marmi vestito Prada grazie ai 35€ giornalieri che prende dalle nostre tasche.
Sono sempre più le persone che dicono di informarsi su facebook, l’habitat ideale per la nascita delle filter bubbles, ossia ecosistemi informativi personali creati da degli algoritmi che operano in base a ciò che andiamo a visualizzare mentre navighiamo in rete. Ciò ci porta ad isolarci da tutto ciò che entra in conflitto con le nostre convinzioni.
Coloro che “vivono” in filter bubbles simili si ritrovano a condividere le loro idee, creando tribù virtuali in cui sentono ripetersi ciò che già pensano e possono compiacersene: è il fenomeno dell’echo chamber, dove tutte le voci sono un eco della propria linea di pensiero.
Approvandosi a vicenda, questi gruppi di persone tendono a radicalizzare le proprie posizioni.

E allora che si fa?
In quasi tutta Europa sono state condotte indagini in merito allo sfasamento tra la realtà di un Paese e la percezione della realtà da parte degli abitanti di questo Paese ed’è emerso che tra tutti gli italiani sono la popolazione che percepisce il reale nella maniera più distorta e negativa. Per comunicare l’immigrazione nel modo corretto basterebbe ridurre lo sfasamento tra realtà e percezione della realtà. Come? Parlando di tutto ciò che apporta, economicamente e culturalmente, l’immigrazione. Non si tratta di inoculare in chi legge e ascolta un contenuto di good news ma di comunicare il reale in tutta la sua complessità.
Non occorre essere giornalisti per raccogliere informazioni e parlare di una cosa su cui si è preparati ma è importante conoscere come funziona la comunicazione: se non si diventa critici della comunicazione se ne subiscono gli effetti.

Ma nessuno se ne occupa?
Proporre alternative è già difficile, rompere le echo chambre ancora di più: ci sono già state molte campagne per cambiare la percezione che le persone hanno dell’immigrazione e non sempre hanno sortito gli effetti sperati.
A volte gli stessi giornalisti usano un linguaggio troppo di nicchia quando la comunicazione dovrebbe trovarsi a metà tra potere e popolazione.
Proprio perché lo scopo della comunicazione è mediare è importante interrogarci sul nostro ruolo nel diffondere notizie giuste e sbugiardare notizie sbagliate. Ciò di cui parlo in questo articolo, infatti, non vale solo per televisione e giornali: comunicare nel modo corretto è responsabilità di tutti.

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Facciamo un  gioco di ruolo

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo…

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo Sarah, sono nata il 2 aprile 1986 e ho la fortuna di essere nata in Italia, dalla parte giusta del mondo. Sono nata in una famiglia che, per vivere, ha dovuto fare moltissimi sacrifici, ma alla fine ce l’abbiamo fatta anche se ancora oggi fatichiamo ad arrivare a fine mese, ovviamente – rispetto a tante altre persone – non mi manca nulla. Ad un certo punto anche mia madre ha trovato lavoro, ma con altri due fratelli i sacrifici sono stati tanti. Certo, quando ero più giovane e vedevo i miei compagni di classe che facevano viaggi, avevano vestiti firmati, giocattoli all’avanguardia, ne ero invidiosa. Crescendo e studiando sono però riuscita a capire che i beni materiali non valgono poi così tanto se, nella vita, preferisci la morte di un essere umano solo perché di un colore di pelle diverso o una religione che non riesci a comprendere. Nonostante i tanti sacrifici e grazie all’aiuto di borse di studio, lavoretti come cameriera, baby sitter, “ragazza delle ripetizioni”, sono riuscita a conseguire il dottorato, e quindi mi reputo una persona davvero molto fortunata.

 

E adesso il gioco. Siamo il signor o la signora X che nel lontano anno Y è nata in Yemen, in Nigeria, in Mali, in Senegal, in Siria, in Libia, in Messico, in Venezuela, in Afghanistan, in Iraq, in Palestina o in qualsiasi altra nazione. Ciascuno di noi può scegliere il Paese che vuole, con una sola regola: deve essere presente un conflitto armato, dove vivere è così pericoloso da non poter neanche uscire di casa oppure, dove è così difficile da trovare acqua potabile che, per farlo, dovete camminare almeno 20km ogni giorno. Ok siamo pronti.

 

Io scelgo la Nigeria. La Nigeria è una nazione dell’Africa centrale, colonia britannica dal 1914 alla quale venne concessa la completa indipendenza il 1° ottobre 1960. Questo ha fatto si che sette anni dopo, il gruppo etnico degli Igbo, dominante nella regione orientale, dichiarò l’indipendenza dalla Nigeria che portò a una sanguinosa guerra civile, la guerra del Biafra. Da qui, il detto italiano comune, almeno nella mia provincia, destinato a qualcuno molto magro e mal vestito: «mi sembri uno del Biafra», direi, orribile! Dopo diversi colpi di Stato, prese di potere e soprattutto l’istallazione di compagnie petrolifere hanno provocato un disastro ambientale sul delta del Niger. Distruggendo flora e fauna locali.

 

La Nigeria è al 50% musulmana e al 49% cristiana. Per anni cristiani e musulmani hanno vissuto insieme, non era una questione di appartenere a una religione invece che un’altra, fino a quando il gruppo terrorista Boko Haram ha preso possesso di alcuni territori iniziando a uccidere chiunque andasse contro i loro principi “musulmani”, se così si possono definire. Boko Haram, significa letteralmente “Occidente Proibito”, questo gruppo, ammaliato da un islam mal interpretato uccide chiunque, musulmani e cristiani. Non c’è differenza. Utilizzano bambini per farsi esplodere, hanno rapito nel 2014, 276 studentesse.

 

Ecco, detto ciò, e se voi, se tu, se io, fossimo nati in Nigeria 20, 30 o 40 anni fa? Che cosa avremmo fatto? Saremmo rimasti a farci uccidere o avremmo tentato l’impossibile e utilizzato tutti i nostri risparmi per tentare di sopravvivere da qualche altra parte nel mondo?

Lascio a voi le conclusioni.

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Essere diversi, essere uguali: dall’invenzione della razza ai giorni nostri

Siamo nel 2018 ma sembra che le cosiddette società occidentali invece che «fare grandi passi in avanti per l’umanità», stiano facendo enormi passi indietro. Con l’avvento di internet e la…

Siamo nel 2018 ma sembra che le cosiddette società occidentali invece che «fare grandi passi in avanti per l’umanità», stiano facendo enormi passi indietro. Con l’avvento di internet e la possibilità per tutti di entrare a far parte di quel mondo virtuale globalizzato, vecchie ideologie naziste, fasciste e razziste, sembrano essere riaffiorate, lasciando da parte quel concetto di uguaglianza tanto voluto dalla Rivoluzione Francese. Da cosa è dato il fenomeno? Forse è sempre stato lì, ma in qualche modo c’era vergogna di renderlo pubblico? Forse sta riaffiorando a causa di una legittimazione data dall’anonimato?

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