Tag: immigrazione

Vorrei poter tornare a Casa…

C’è una poesia di Gianni Rodari che risuona spesso nella mia testa. Si intitola “Il treno degli emigranti“. Pochi versetti, in cui è rinchiuso tutto quello che un emigrante porta…

C’è una poesia di Gianni Rodari che risuona spesso nella mia testa. Si intitola “Il treno degli emigranti“.

Pochi versetti, in cui è rinchiuso tutto quello che un emigrante porta con sè quando decide di lasciare la sua terra natale per cercare fortuna altrove, quella terra tanto amata che però non gli dà da mangiare per poter vivere.

Spesso chi non emigra non ha minimamente idea delle emozioni che prova una persona che lo fa.

Le ragioni per cui un qualcuno decide di emigrare sono molteplici, ma non per questo più o meno importanti. La valigia di cui parla Rodari è una valigia che non contiene scarpe o sapone o asciugamani. E una valigia che contiene la terra del villaggio, il pane e una frutta fresca, le cose materiali che più si avvicinano a ciò che conosciamo e che ci rendono felici.

Mi ricordo ancora quel giorno in cui decisi che l’emigrazione era l’unica scelta possibile per me e mio marito. Passai un paio di settimane a trovare tutte le scuse possibili e inimmaginabili per non doverlo fare, tuttavia, in quel momento lì, forse, era la scelta più sensata. Di sicuro non scappavamo dalla guerra o da altre situazioni difficilissime, semplicemente ci trasferivamo da un Paese europeo ad un altro.

Per me una tragedia. Avete presente quando Heidi viene portata di forza dalle Alpi a Francoforte e inizia a fare la sonnambula di notte perché le mancano le montagne? Beh, a me succede più o meno una cosa del genere. Qualche volta il mio stress è così forte che il mio fisico non lo regge, e reagisce scatenando diverse infezioni e/o malanni.

Per me l’emigrazione nei Paesi Bassi è stata ed è un calvario, non riesco a integrarmi in questa società, e stiamo parlando di una nazione europea.

Penso a come gli altri emigranti come me possano sentirsi, soprattutto quelli che scappano da condizioni disperate come guerra, mancanza di acqua, cibo, eccetera. Me lo chiedo spesso, come si può arginare la nostalgia?

Ah, la nostalgia… Secondo la definizione di Treccani:

Nostalgìa s. f. [comp. del gr. νόστος «ritorno» e -algia (v. algia)]. – Desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano […] Per estens., stato d’animo melanconico, causato dal desiderio di persona lontana (o non più in vita) o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque lontano: n. degli amici, dell’affetto materno; n. della giovinezza lontana; n. dei tempi passati.”

In portoghese, Saudade, non può essere tradotto. Impossibile. La nostalgia non ha cura chimica, l’unica soluzione è quella di poter tornare a casa, di poter vivere lì, dove ti senti appartenere, con la tua terra, il pezzo di pane senza sale e un frutto, tutto ciò che conta.

Non è grossa, non è pesante

la valigia dell’emigrante…

C’è un po’ di terra del mio villaggio,

per non restar solo in viaggio…

Un vestito, un pane, un frutto

e questo è tutto.

Ma il cuore no, non l’ho portato:

nella valigia non c’è entrato.

Troppa pena aveva a partire,

oltre il mare non vuole venire.

Lui resta, fedele come un cane,

nella terra che non mi dà pane:

un piccolo campo, proprio lassù…

Ma il treno corre: non si vede più.

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MIGRAZIONI DI CLASSE

“Loro sono i veri rifugiati”. Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così,…

Loro sono i veri rifugiati”.

Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così, mi trovo di fronte ad un operator* del settore dell’accoglienza rifugiati.

Siamo di fronte ad un caffè all’ombra del sole caldo di agosto. È l’agosto del 2021 e stanno arrivando in Italia i primi rifugiati dall’Afghanistan. Per quanto diverso il viaggio e la legalità del loro arrivo anche loro sono rientrati nel circolo delle richieste asilo e nel percorso necessario per l’ottenimento dello status di rifugiato, con i documenti che ne conseguono e la speranza di ricrearsi una vita.

Io prendo sempre il caffè amaro, adoro l’impatto iniziale che ha sulle labbra e il modo in cui si ritira la lingua a contatto col sapore forte del caffè. Sono alla fine di una giornata di lavoro particolarmente faticosa, i nuovi arrivi, l’assegnazione delle camere, provare a spiegare le regole del centro e il funzionamento del procedimento burocratico per l’ottenimento dei documenti. La fortuna di avere una lingua di comunicazione, l’inglese, è fondamentale. La mia giornata sta finendo e con dei colleghi commentiamo la fortuna di avere una lingua con cui comunicare con i rifugiati afgani appena arrivati al centro. Mi sto godendo la digestione al sole quando sento:

loro sono gli unici che hanno davvero il diritto di stare qui. Loro sono i veri rifugiati”.
La digestione si blocca.

Voglio premettere che io sono bianca, né ricca, né povera, ho sempre lavorato e studiato per aiutare la mia famiglia ma ho il lusso di studiare e vivere secondo la mia più semplice naturalezza. Dico questo perché penso sia una parte importante della mia reazione, chiamiamolo senso di colpa bianco, chiamiamolo buonismo, chiamiamola educazione cristiana ma questa distinzione tra immigrazione di serie A e immigrazione di serie B mi ha fatto andare di traverso il caffè.

Perché distinguere chi lascia casa propria, le proprie radici, i propri affetti, la propria lingua, classificandolo in base al motivo per cui decide (o è costretto) a fuggire? Quello che mi chiedo davvero è perché far ricadere su di loro la pesantezza di una categorizzazione così forte? Vogliamo dire che non poter dare da mangiare alla propria famiglia non è un motivo valido per cercare qualcosa di meglio? Il padre di mia nonna lavorò in Germania per molte estati in una miniera, in cosa era diverso?

Certo potremmo criticare il sistema di accoglienza, il fatto che un procedimento di richiesta di asilo può durare anche sette anni, durante i quali la persona dietro il processo, lavora, trova amici, crea quotidianità, si arrabbia, è felice, magari si innamora se è fortunato. E dopo sette anni di rinnovi del permesso di soggiorno ti dicono che non puoi più rimanere, che ora, dopo sette anni, devi lasciare di nuovo quella che magari avevi iniziato a sentire un po’ come casa tua.

Potremmo criticare certo, una mancanza di distinzione tra le motivazioni che portano alla migrazione, non classificandole ma gestendo i processi burocratici e gli status valutando i perché oltre al cosa, valutando cosa mi ha spinto così da sapere anche cosa cerco alla fine di questo viaggio. Ma perché ma perché far ricadere una classificazione gerarchica su chi tutto questo processo lo subisce? È “colpa” del ragazzo bengalese di venti anni, scappato per dare un futuro alla famiglia, se si è ritrovato nella macchina del richiedente asilo quando lui vorrebbe solo lavorare e mandare i soldi a casa? È colpa del Burkinabé’ fuggito da Boko Haram se il paese non dichiara uno stato di emergenza al confine col Mali?

La cosa che trovo ancora difficile da accettare, a distanza di mesi, è come questa distinzione sia stata trasferita sulla realtà giornaliera, non solo nel trattamento giuridico, nei tempi di attesa e nella priorità data a tutti i livelli della macchina burocratica, ma, soprattutto, del trattamento relazionale riservato a seconda della provenienza.

Certo, la fuga da una guerra in corso e da una situazione come quella dell’Afghanistan e dell’Ucraina rende necessaria la velocizzazione del processo ed è evidente che i controlli necessari dopo le dichiarazioni siano quasi inutili rispetto alle altre situazioni. È anche inevitabile che un uomo istruito e benestante faccia richieste diverse rispetto ad un ragazzo ventenne poco più che alfabetizzato e che le possibilità di comunicazione siano differenti. Sicuramente sarà solo il primo a chiedere la convalida di un titolo universitario e avrà bisogno di un aiuto in questo, cercherà un altro tipo di lavoro, potrà spiegarsi quando è triste, quando sta male, se non riesce a dormire perché i Talibani sono entrati nella casa dove vive sua moglie che non è riuscita a scappare..

E certamente, sarà inevitabile, riconoscere un problema di fondo nella politica di accoglienza italiana che non contempla i rifugiati economici o i rifugiati climatici tra le possibilità per le quali fare richiesta di soggiorno.

Ma questo giustifica una distinzione così classista tra immigrati “come noi” e immigrati “diversi”? rifugiati di serie A e rifugiati di serie B?

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How to: comunicare positivamente l’immigrazione

Se siete approdati su questa pagina, qualunque siano le vostre posizioni sull’immigrazione, vi sarete sicuramente lamentati di una cosa: l’immigrazione viene comunicata male. Scrivo questo articolo perché sono d’accordo con…

Se siete approdati su questa pagina, qualunque siano le vostre posizioni sull’immigrazione, vi sarete sicuramente lamentati di una cosa: l’immigrazione viene comunicata male.
Scrivo questo articolo perché sono d’accordo con voi. Tutti noi, e non parlo solo di media e social network, stiamo facendo degli sbagli quando parliamo di immigrazione:

Una piccola verità sugli immigrati per continuare la lettura                           L’8% della popolazione residente in Italia è composta da immigrati. No, non il 30% come dicono sempre i sondaggi. Sono un po’ pochini per usare paroloni come di “invasione di migranti”, non trovate? Vi dirò di più: la maggior parte di questo 8% sono persone appartenenti al ceto medio del loro paese che vengono qui in maniera completamente legale per costruire un futuro migliore ai loro figli. Insomma, sono persone che ci somigliano: alzi la mano chi tra voi non ha mai pensato di trasferirsi all’estero per ottenere un lavoro migliore.
Aggiungo un ultimo dato a conclusione di questo paragrafo: gli immigrati, con il loro lavoro, producono quasi il 9% del PIL nazionale. La ricchezza generata da questo 8% di popolazione va poi a supportare le pensioni dei numerosi anziani residenti in questo Paese/di nonni e genitori italiani.

Ma se i dati esatti sull’immigrazione sono questi allora perchè si diffondono notizie ben più negative?
Non si sa se sia l’amore o l’odio la forza a muovere questo mondo: quel che purtroppo pare essere certo è che l’odio fa più notizia. Se a ciò si aggiunge il potere di amplificazione di internet diventa questione di un attimo indignarsi perché Samuel L. Jackson se ne sta “svaccato” su una panchina a Forte dei Marmi vestito Prada grazie ai 35€ giornalieri che prende dalle nostre tasche.
Sono sempre più le persone che dicono di informarsi su facebook, l’habitat ideale per la nascita delle filter bubbles, ossia ecosistemi informativi personali creati da degli algoritmi che operano in base a ciò che andiamo a visualizzare mentre navighiamo in rete. Ciò ci porta ad isolarci da tutto ciò che entra in conflitto con le nostre convinzioni.
Coloro che “vivono” in filter bubbles simili si ritrovano a condividere le loro idee, creando tribù virtuali in cui sentono ripetersi ciò che già pensano e possono compiacersene: è il fenomeno dell’echo chamber, dove tutte le voci sono un eco della propria linea di pensiero.
Approvandosi a vicenda, questi gruppi di persone tendono a radicalizzare le proprie posizioni.

E allora che si fa?
In quasi tutta Europa sono state condotte indagini in merito allo sfasamento tra la realtà di un Paese e la percezione della realtà da parte degli abitanti di questo Paese ed’è emerso che tra tutti gli italiani sono la popolazione che percepisce il reale nella maniera più distorta e negativa. Per comunicare l’immigrazione nel modo corretto basterebbe ridurre lo sfasamento tra realtà e percezione della realtà. Come? Parlando di tutto ciò che apporta, economicamente e culturalmente, l’immigrazione. Non si tratta di inoculare in chi legge e ascolta un contenuto di good news ma di comunicare il reale in tutta la sua complessità.
Non occorre essere giornalisti per raccogliere informazioni e parlare di una cosa su cui si è preparati ma è importante conoscere come funziona la comunicazione: se non si diventa critici della comunicazione se ne subiscono gli effetti.

Ma nessuno se ne occupa?
Proporre alternative è già difficile, rompere le echo chambre ancora di più: ci sono già state molte campagne per cambiare la percezione che le persone hanno dell’immigrazione e non sempre hanno sortito gli effetti sperati.
A volte gli stessi giornalisti usano un linguaggio troppo di nicchia quando la comunicazione dovrebbe trovarsi a metà tra potere e popolazione.
Proprio perché lo scopo della comunicazione è mediare è importante interrogarci sul nostro ruolo nel diffondere notizie giuste e sbugiardare notizie sbagliate. Ciò di cui parlo in questo articolo, infatti, non vale solo per televisione e giornali: comunicare nel modo corretto è responsabilità di tutti.

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Facciamo un  gioco di ruolo

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo…

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo Sarah, sono nata il 2 aprile 1986 e ho la fortuna di essere nata in Italia, dalla parte giusta del mondo. Sono nata in una famiglia che, per vivere, ha dovuto fare moltissimi sacrifici, ma alla fine ce l’abbiamo fatta anche se ancora oggi fatichiamo ad arrivare a fine mese, ovviamente – rispetto a tante altre persone – non mi manca nulla. Ad un certo punto anche mia madre ha trovato lavoro, ma con altri due fratelli i sacrifici sono stati tanti. Certo, quando ero più giovane e vedevo i miei compagni di classe che facevano viaggi, avevano vestiti firmati, giocattoli all’avanguardia, ne ero invidiosa. Crescendo e studiando sono però riuscita a capire che i beni materiali non valgono poi così tanto se, nella vita, preferisci la morte di un essere umano solo perché di un colore di pelle diverso o una religione che non riesci a comprendere. Nonostante i tanti sacrifici e grazie all’aiuto di borse di studio, lavoretti come cameriera, baby sitter, “ragazza delle ripetizioni”, sono riuscita a conseguire il dottorato, e quindi mi reputo una persona davvero molto fortunata.

 

E adesso il gioco. Siamo il signor o la signora X che nel lontano anno Y è nata in Yemen, in Nigeria, in Mali, in Senegal, in Siria, in Libia, in Messico, in Venezuela, in Afghanistan, in Iraq, in Palestina o in qualsiasi altra nazione. Ciascuno di noi può scegliere il Paese che vuole, con una sola regola: deve essere presente un conflitto armato, dove vivere è così pericoloso da non poter neanche uscire di casa oppure, dove è così difficile da trovare acqua potabile che, per farlo, dovete camminare almeno 20km ogni giorno. Ok siamo pronti.

 

Io scelgo la Nigeria. La Nigeria è una nazione dell’Africa centrale, colonia britannica dal 1914 alla quale venne concessa la completa indipendenza il 1° ottobre 1960. Questo ha fatto si che sette anni dopo, il gruppo etnico degli Igbo, dominante nella regione orientale, dichiarò l’indipendenza dalla Nigeria che portò a una sanguinosa guerra civile, la guerra del Biafra. Da qui, il detto italiano comune, almeno nella mia provincia, destinato a qualcuno molto magro e mal vestito: «mi sembri uno del Biafra», direi, orribile! Dopo diversi colpi di Stato, prese di potere e soprattutto l’istallazione di compagnie petrolifere hanno provocato un disastro ambientale sul delta del Niger. Distruggendo flora e fauna locali.

 

La Nigeria è al 50% musulmana e al 49% cristiana. Per anni cristiani e musulmani hanno vissuto insieme, non era una questione di appartenere a una religione invece che un’altra, fino a quando il gruppo terrorista Boko Haram ha preso possesso di alcuni territori iniziando a uccidere chiunque andasse contro i loro principi “musulmani”, se così si possono definire. Boko Haram, significa letteralmente “Occidente Proibito”, questo gruppo, ammaliato da un islam mal interpretato uccide chiunque, musulmani e cristiani. Non c’è differenza. Utilizzano bambini per farsi esplodere, hanno rapito nel 2014, 276 studentesse.

 

Ecco, detto ciò, e se voi, se tu, se io, fossimo nati in Nigeria 20, 30 o 40 anni fa? Che cosa avremmo fatto? Saremmo rimasti a farci uccidere o avremmo tentato l’impossibile e utilizzato tutti i nostri risparmi per tentare di sopravvivere da qualche altra parte nel mondo?

Lascio a voi le conclusioni.

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Dall’inferno della Libia ai barconi verso l’Italia: volete davvero sapere di questo viaggio?

Sono Mamadou, vengo dal Gambia e ho 24 anni. Il mio viaggio è iniziato a maggio. 10 maggio 2013. Ho lasciato il mio Paese alla volta di Senegal, Mali, Burkina…

Sono Mamadou, vengo dal Gambia e ho 24 anni. Il mio viaggio è iniziato a maggio.

10 maggio 2013. Ho lasciato il mio Paese alla volta di Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Algeria, Libia e Italia.

Ogni paese che ho attraversato ha costituito una differente esperienza di vita ma il luogo peggiore dove sono stato è in Libia.

15 agosto 2013, Agadez, (Niger). Lascio il Niger. Eravamo 24 persone caricate in un pick-up (Toyota) dove stavamo strettissimi. Ai trafficanti non importa se cadi dalla macchina, non si fermerebbero mai, si comportano come se nulla fosse accaduto. Abbiamo passato 8 giorni nel deserto, senza acqua né cibo, con il sole che picchiava fortissimo.

Dopo 5 giorni nel deserto, ricordo che il trafficante ci disse che andava a cercare l’acqua. Dopo molte ore, non era ancora tornato. Abbiamo aspettato tanto tempo. Ad un certo punto, alcuni di noi hanno iniziato a perdere le speranze. Alcuni dicevano che non sarebbe mai tornato, altri che dovevamo andare noi da lui. Dopo aver realizzato che non sarebbe mai tornato indietro, abbiamo iniziato a camminare in piccoli gruppi, senza una direzione. Dopo pochi passi, abbiamo iniziato a vedere corpi morti nel deserto.

In quel momento ho realizzato che dove ci aveva lasciato il trafficante era un punto di abbandono, di non ritorno.

In una situazione del genere, anche se vuoi aiutare qualcuno non puoi. Devi pensare solo a te stesso. Eravamo partiti con un gruppo di 8 persone… ed eravamo rimasti in 4.  Dopo giorni di cammino in mezzo al nulla, non si sentiva più nessuno proferire parola, nessuno faceva più domande. Il sole picchiava e continuavamo a vagare senza direzione.

Fortunatamente, durante il tragitto abbiamo incontrato qualcuno. Erano soldati libici che controllavano la zona. Siamo stati salvati e portati in un piccolo centro urbano, lontano da Tripoli, la capitale.

Dopo un mese nella cittadina dove eravamo costretti a lavorare, io e un amico siamo riusciti a raggiungere Tripoli, dove sono rimasto per circa un anno e sette mesi. Durante la mia permanenza, andavo a ‘Chat palace’ un posto che può essere paragonato ad una “sala di attesa” dove si spera di essere assegnati a lavori di fortuna. Pulizie, piccoli lavoretti da elettricisti etc.. molte volte non venivamo neanche retribuiti. Dopo questa esperienza, io ed altre 120 persone abbiamo provato a raggiungere le coste libiche per scappare e venire in Italia. La Libia non era più sicura ed io non potevo tornare indietro. Iniziava la seconda guerra civile libica.

Prima di arrivare alla costa però, siamo stati presi dalla polizia libica e portati in carcere, luogo nel quale sono rimasto per circa tre mesi.

Un giorno ci hanno prelevato dal carcere per rimpatriarci a Sabha, città a sud del paese (la città del ‘rimpatrio’). A Sabha puoi incontrare gli asma boys, ragazzini armati che si divertono a sparare. È uno dei posti più pericolosi della Libia. La polizia libica scortava i tre autobus dove eravamo stati stipati.

Appena la polizia ha girato l’angolo e non ha ci ha seguito più, sono riuscito a scappare lanciandomi dal finestrino. Non sapevo dove fossi, in quale direzione andare. Ad un certo punto ho visto un ragazzo africano e gli ho chiesto di farmi fare una chiamata dal suo cellulare. Ho chiamato un amico a Tripoli e lui ed un suo amico libico sono venuti a prendermi. Sono tornato a vivere a Tripoli dove sono rimasto ancora un mese.

Il Paese però era ancora in preda alla guerra civile, la situazione era peggiorata. Non potevo più stare lì. Così sono andato a vivere a Zuwarah, da dove mi sono imbarcato per l’Italia.

 

Mamadou Baldeh

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Essere diversi, essere uguali: dall’invenzione della razza ai giorni nostri

Siamo nel 2018 ma sembra che le cosiddette società occidentali invece che «fare grandi passi in avanti per l’umanità», stiano facendo enormi passi indietro. Con l’avvento di internet e la…

Siamo nel 2018 ma sembra che le cosiddette società occidentali invece che «fare grandi passi in avanti per l’umanità», stiano facendo enormi passi indietro. Con l’avvento di internet e la possibilità per tutti di entrare a far parte di quel mondo virtuale globalizzato, vecchie ideologie naziste, fasciste e razziste, sembrano essere riaffiorate, lasciando da parte quel concetto di uguaglianza tanto voluto dalla Rivoluzione Francese. Da cosa è dato il fenomeno? Forse è sempre stato lì, ma in qualche modo c’era vergogna di renderlo pubblico? Forse sta riaffiorando a causa di una legittimazione data dall’anonimato?

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Lettera nera: tra sogno e realtà

Cara madre, ti scrivo con un po’ di pena dopo tanti anni. Non sai quanto mi manchi, non sai quanto vorrei abbracciarti e dirti dal vivo che ti voglio tanto…

Cara madre,

ti scrivo con un po’ di pena dopo tanti anni. Non sai quanto mi manchi, non sai quanto vorrei abbracciarti e dirti dal vivo che ti voglio tanto bene. Purtroppo, adesso, è un lusso che non mi posso permettere perché non ho ancora realizzato i miei sogni.  Se persevero, tu sarai la mia locomotiva. Visto che non ci sentiamo da anni, vorrei raccontarti un po’ la mia vita qui, le mie esperienze, insomma, il mio quotidiano.

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