Lo studio teatrale Smascherati! e il laboratorio teatrale Human Beings hanno portato in scena per tre serate al Chiostro Sant’Anna il loro ultimo lavoro teatrale, “Via di qua”. Se nella…
Lo studio teatrale Smascherati! e il laboratorio teatrale Human Beings hanno portato in scena per tre serate al Chiostro Sant’Anna il loro ultimo lavoro teatrale, “Via di qua”.
Se nella locandina di uno spettacolo leggi che quello che stai per vedere è un “gioco scenico di varia umanità”, sai già che stai andando incontro ad un’esperienza come poche altre. E ne sei ancora più convinto se poi vedi che lo spettacolo è organizzato da un “workshop teatrale inter-culturale internazionale”, con 35 componenti provenienti da tutta Italia e da tutto il mondo, a titolo non solo di attori. “I ragazzi sono anche ideatori dello spettacolo, buona parte di quello che vedrete viene dalle loro idee su quello che vogliono trasmettere”, spiega la ragazza che fa la maschera per la serata. “Beh se l’hanno fatto i giovani allora sarà divertente!” è il commento di una delle signore che hanno chiesto informazioni.
A dire la verità, “divertimento” non è la prima parola che mi viene in mente quando ripenso allo spettacolo. I momenti che strappavano un sorriso o una risata non sono mancati. Ma almeno nel mio caso sono state motivate dall’assurdità delle immagini evocate dagli attori a beneficio della platea: a tratti grottesche, crudeli nel loro essere così rappresentative della realtà. E questo è vero fin dalla prima scena.
Il tutto parte, come tante altre storie, dal mare. Il rumore delle onde è inconfondibile; una tavola di legno simula una barca; gli attori che cercano di issarsi su di essa, uomini che non si rassegnano al destino di un naufragio imminente (vero o figurato, nel mare o nella vita, non è dato saperlo). Il primo ragazzo fallisce; così il secondo. Il terzo, finalmente, riesce ad arrampicarsi sulla tavola. Ma un altro personaggio si dirige fischiettando verso il centro della scena; nella finzione scenica il suo bastone diventa un fucile, i “bang” diventano spari, e uno di questi colpisce il naufrago alle sue spalle, che ricade in acqua tra le risate dell’uomo col fucile, incurante degli effetti della sua incoscienza armata. Come minimo, è una metafora della noncuranza di alcuni soggetti verso le tribolazioni altrui; se poi la vogliamo prendere in senso più letterale…
Intervallate da altre scene più “leggere”, ce ne sono state altrettante a raffigurare, ricorrendo all’assurdo, le assurdità di alcuni comportamenti, così squisitamente e tristemente umani. Alcune mi sono rimaste particolarmente impresse:
- il tentativo di una ragazza del nord Italia di insegnare una canzone popolare (“La bella polenta”) e la relativa mimica a due ragazzi africani, che si prestano bene al gioco; e la reazione di altri due personaggi nell’ascoltare e vedere la parte finale del simpatico spettacolino (“come si caga la bella polenta? La bella polenta si caga così! Oh-oh-oh, la bella polenta così”). Quali stereotipi simboleggiavano i due personaggi, molto ben vestiti e altrettanto disgustati dalla scena? il francese con la punta sotto il naso? il tedesco sprezzante? O semplicemente chiunque abbia una immotivata chiusura mentale?
- La diatriba tra una ragazza italiana ed un ragazzo nero su chi dei due fosse “fuori” e chi “dentro”, una volta messa tra loro una porta; e una volta tolta la porta, chi dei due fosse “fuori” o “dentro” rispetto ad un confine segnato col piede sul terreno. Un’assurdità, ma un’assurdità contagiosa, che travolge in pochi secondi tutti gli attori della serata, impegnati prima a tracciare confini immaginari; poi a ballare tutti insieme sulle note di Time Warp del Rocky Horror Picture Show, in un’illusione di condivisione di qualcosa che non sia l’astio reciproco; e infine a cacciarsi reciprocamente, ognuno nella propria lingua. Chi ha cacciato qualcuno viene subito cacciato da qualcun altro fuori dalla scena, che così pian piano si svuota. Fino a che non ne rimane solo uno, il vincitore di questa sfida confinaria, a gioire della sua vittoria, e poi a disperarsi della sua solitudine. Cosa può trasmette una scena del genere? A cosa vi fa pensare dello stato del mondo e dell’umanità in generale?
- Ragazzi e ragazze trascinano i piedi, mentre portano delle valigie verso i lati della scena; le poggiano a terra, le aprono, tirano fuori pistole ad acqua e gavettoni, che iniziano immediatamente ad usare l’uno contro l’altro. Ma non siamo al mare, questa è una guerra: uno sparo fa cadere tutti a terra, e per un momento sembra che tutto sia finito: una nuova comparsa chiede dove sia il confine, e tutti rispondono a turno “è di là!”, per poi precipitarsi in direzioni diverse, fuori dalla zona illuminata dai riflettori…
- … al centro della scena un contadino inizia a picconare il terreno; prima con la calma di chi lavora la terra e sa cosa sta facendo, poi sempre con più foga, fino ad aprire una buca, che riempie d’acqua, e in cui poi inizia a saltare, come farebbe un bambino. Ma le risate non sono di gioia: diventano isteriche, lasciando dubitare della sanità mentale del personaggio. Cosa vuole insegnarci questa scena? Che dopo un evento come una guerra nulla, soprattutto la normalità, riesce a salvarsi, ad essere più come prima?
Per farla breve (non posso mica raccontarvi tutto lo spettacolo!), “Via di qua” non è stata una divertente messa in scena, ma uno spettacolo intelligente, per far riflettere sul mondo che ci circonda, sul rapporto con i nostri simili, e sulle assurdità che a volte la vita e la natura umana ci mette davanti. Una grande iniziativa, portata avanti da ragazzi e ragazze appassionati, accomunati nella diversità di provenienze e di storie dalla stessa passione, che hanno messo tutto loro stessi sotto i riflettori e davanti al pubblico.
Se dovessero riproporre lo spettacolo, andate a vederlo. Altrimenti, tenete d’occhio il loro sito per vedere quando ne daranno un altro. Sarà un’esperienza da ricordare.