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MIGRAZIONI DI CLASSE

“Loro sono i veri rifugiati”. Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così,…

Loro sono i veri rifugiati”.

Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così, mi trovo di fronte ad un operator* del settore dell’accoglienza rifugiati.

Siamo di fronte ad un caffè all’ombra del sole caldo di agosto. È l’agosto del 2021 e stanno arrivando in Italia i primi rifugiati dall’Afghanistan. Per quanto diverso il viaggio e la legalità del loro arrivo anche loro sono rientrati nel circolo delle richieste asilo e nel percorso necessario per l’ottenimento dello status di rifugiato, con i documenti che ne conseguono e la speranza di ricrearsi una vita.

Io prendo sempre il caffè amaro, adoro l’impatto iniziale che ha sulle labbra e il modo in cui si ritira la lingua a contatto col sapore forte del caffè. Sono alla fine di una giornata di lavoro particolarmente faticosa, i nuovi arrivi, l’assegnazione delle camere, provare a spiegare le regole del centro e il funzionamento del procedimento burocratico per l’ottenimento dei documenti. La fortuna di avere una lingua di comunicazione, l’inglese, è fondamentale. La mia giornata sta finendo e con dei colleghi commentiamo la fortuna di avere una lingua con cui comunicare con i rifugiati afgani appena arrivati al centro. Mi sto godendo la digestione al sole quando sento:

loro sono gli unici che hanno davvero il diritto di stare qui. Loro sono i veri rifugiati”.
La digestione si blocca.

Voglio premettere che io sono bianca, né ricca, né povera, ho sempre lavorato e studiato per aiutare la mia famiglia ma ho il lusso di studiare e vivere secondo la mia più semplice naturalezza. Dico questo perché penso sia una parte importante della mia reazione, chiamiamolo senso di colpa bianco, chiamiamolo buonismo, chiamiamola educazione cristiana ma questa distinzione tra immigrazione di serie A e immigrazione di serie B mi ha fatto andare di traverso il caffè.

Perché distinguere chi lascia casa propria, le proprie radici, i propri affetti, la propria lingua, classificandolo in base al motivo per cui decide (o è costretto) a fuggire? Quello che mi chiedo davvero è perché far ricadere su di loro la pesantezza di una categorizzazione così forte? Vogliamo dire che non poter dare da mangiare alla propria famiglia non è un motivo valido per cercare qualcosa di meglio? Il padre di mia nonna lavorò in Germania per molte estati in una miniera, in cosa era diverso?

Certo potremmo criticare il sistema di accoglienza, il fatto che un procedimento di richiesta di asilo può durare anche sette anni, durante i quali la persona dietro il processo, lavora, trova amici, crea quotidianità, si arrabbia, è felice, magari si innamora se è fortunato. E dopo sette anni di rinnovi del permesso di soggiorno ti dicono che non puoi più rimanere, che ora, dopo sette anni, devi lasciare di nuovo quella che magari avevi iniziato a sentire un po’ come casa tua.

Potremmo criticare certo, una mancanza di distinzione tra le motivazioni che portano alla migrazione, non classificandole ma gestendo i processi burocratici e gli status valutando i perché oltre al cosa, valutando cosa mi ha spinto così da sapere anche cosa cerco alla fine di questo viaggio. Ma perché ma perché far ricadere una classificazione gerarchica su chi tutto questo processo lo subisce? È “colpa” del ragazzo bengalese di venti anni, scappato per dare un futuro alla famiglia, se si è ritrovato nella macchina del richiedente asilo quando lui vorrebbe solo lavorare e mandare i soldi a casa? È colpa del Burkinabé’ fuggito da Boko Haram se il paese non dichiara uno stato di emergenza al confine col Mali?

La cosa che trovo ancora difficile da accettare, a distanza di mesi, è come questa distinzione sia stata trasferita sulla realtà giornaliera, non solo nel trattamento giuridico, nei tempi di attesa e nella priorità data a tutti i livelli della macchina burocratica, ma, soprattutto, del trattamento relazionale riservato a seconda della provenienza.

Certo, la fuga da una guerra in corso e da una situazione come quella dell’Afghanistan e dell’Ucraina rende necessaria la velocizzazione del processo ed è evidente che i controlli necessari dopo le dichiarazioni siano quasi inutili rispetto alle altre situazioni. È anche inevitabile che un uomo istruito e benestante faccia richieste diverse rispetto ad un ragazzo ventenne poco più che alfabetizzato e che le possibilità di comunicazione siano differenti. Sicuramente sarà solo il primo a chiedere la convalida di un titolo universitario e avrà bisogno di un aiuto in questo, cercherà un altro tipo di lavoro, potrà spiegarsi quando è triste, quando sta male, se non riesce a dormire perché i Talibani sono entrati nella casa dove vive sua moglie che non è riuscita a scappare..

E certamente, sarà inevitabile, riconoscere un problema di fondo nella politica di accoglienza italiana che non contempla i rifugiati economici o i rifugiati climatici tra le possibilità per le quali fare richiesta di soggiorno.

Ma questo giustifica una distinzione così classista tra immigrati “come noi” e immigrati “diversi”? rifugiati di serie A e rifugiati di serie B?

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Ero una bimba straniera. Oggi insegno a non temere la diversità

L’educazione verso la tolleranza, il rispetto e l’accettazione del (apparentemente) diverso parte necessariamente dalla scuola. Proprio la scuola rappresenta il mondo di Elvira, da alunna e studentessa a insegnante. La particolarità? Anche…

L’educazione verso la tolleranza, il rispetto e l’accettazione del (apparentemente) diverso parte necessariamente dalla scuola. Proprio la scuola rappresenta il mondo di Elvira, da alunna e studentessa a insegnante. La particolarità? Anche lei, a suo tempo, era una nuova umbra.

Ciao Elvira, presentati in due parole

“Ho 29 anni e sono un’insegnate della scuola primaria. Mi sono laureata nel 2015 in Lettere Moderne e sto nella fase conclusiva della mia seconda laurea in Scienze della Formazione Primaria”.

Sei italiana, di origine kossovara, con genitori stranieri. Come è stata la tua infanzia dal punto di vista dell’integrazione?

“Dal punto di vista dell’integrazione la mia infanzia non è stata semplice, un po’ perché ancora la scuola non era pronta e così attenta a questo tema e in parte per il mio carattere, essendo molto timida e introversa. La lingua non mi era d’ostacolo, anzi ho iniziato a sostituire la mia lingua madre con l’italiano. Infatti in casa, anche con i miei genitori, parlavamo solo italiano”.

E la scuola come l’hai vissuta sotto questo aspetto?

“Ho fatto una scuola a tempo pieno e mi piaceva molto andarci. Mi ricordo che in prima elementare, appena imparato l’alfabeto, scrivevo ovunque e dappertutto: ero diventata grafomane.  Nonostante ciò, mi ricordo di aver fatto molta fatica ad essere accettata dai miei compagni di classe proprio in quanto il lavoro delle insegnanti da questo punto di vista è stato quasi pari a zero. Ciò era dovuto in parte al fatto che vedevano e sentivano che con la lingua ero spigliata, così come con il rendimento scolastico”.

Per te studiare è stato importante nel tuo processo d’integrazione?

“Lo studio era diventato un mio rifugio e riscatto dalla mia condizione di partenza, vedevo lo studio come l’unica cosa che mi facesse assomigliare ai miei compagni di classe e accettare dal mondo che mi che circondava. Spesso ciò mi provocava rabbia perché ho sempre dovuto combattere per affermarmi, farmi conoscere e non sentirmi dire ‘tu sei straniera!’ e le volte in cui ho sentito, ahimè, questa affermazione, ci sono sempre stata male. Io non mi sentivo diversa da nessuno: erano gli altri che volevano farmi sentire diversa da loro ed era difficile per me dimostrargli questo”.

Cosa ti ha spinto a diventare un’insegnante?

“L’amore, ma soprattutto l’appartenenza che sento alla lingua italiana e la voglia di trasmettere il mio sapere al prossimo, facendo attenzione alle difficoltà di ciascuno, piccoli e grandi, senza alcuna distinzione. Trasmettere la sete di conoscenza e l’amore per lo studio come unico mezzo per raggiungere i nostri obbiettivi. Ovviamente il percorso non è senza sacrifici e difficoltà, ma la soddisfazione finale ripaga di tutto. Vedersi dove si voleva essere, almeno nel mio caso, è la cosa che più mi ha gratificato nella vita. Da insegnante vorrei poter infondere coraggio, fiducia in se stessi, amore e gentilezza. Purtroppo certi valori si stanno dimenticando perché l’egoismo e l’individualismo che stanno dominando la nostra società hanno preso il sopravvento, facendoci dimenticare che siamo tutti esseri umani con sentimenti, emozioni e desideri”.

Secondo te, cosa dovrebbe rappresentare un’insegnante?

“Per me è  importante che ogni bambino senta la maestra come un sua alleata nella vita, un punto di rifermento (dopo ovviamente le figure parentali) nel suo percorso di crescita. È importante che fin da piccolo un bambino impari i giusti valori, impari ad essere umano e non un automa. Un essere pensante che può decidere cosa vuole diventare, cosa vuole fare, cosa vuole dare a questo nostro mondo per renderlo migliore di ciò che è. Vorrei poter insegnare che anche il più piccolo contributo può fare la differenza”.

Nel tuo lavoro insegni a bambini/e di varie età, e tra loro ci sono stranieri e seconde generazioni. Come vivono i bambini queste classi multiculturali?

“È difficile esprimersi perché sicuramente con uno spaccato di società come quello attuale, c’è ancora la paura dello ‘straniero’. Questa fobia è instillata ancor di più dalla nostra classe politica, che sta infondendo sempre più cattiveria e sta cancellando quei passi fatti negli anni fino ad ora verso una politica di integrazione ed inclusione verso il prossimo, che per quanto difficoltosa in parte ha funzionato, ma su cui ancora c’è bisogno di lavorare, in primis noi insegnanti”.

E gli adulti?

“Per chi ha potuto, come me, avere gli strumenti giusti, l’integrazione ha funzionato. Ma per chi non ha avuto la mia fortuna di poter studiare e di essere seguita da una famiglia attenta e premurosa, non mi sento di dire che l’integrazione abbia funzionato. Penso anzi che le politiche di integrazione sbagliate abbiano fatto sì che le persone si ghettizzassero da sole, volendosi fare forza tra di loro per affermarsi e dire: esistiamo anche noi”.

Trovi qualche differenza tra la scuola che tu hai frequentato e quella attuale che vivi da educatrice?

“Sicuramente ci sono stati notevoli passi avanti nella scuola da quando ero studentessa ad ora che sono un’educatrice. Avrei voluto anche io avere insegnanti più preparate e attente su questo argomento come ci sono oggi. Nel mio piccolo, come insegnante, attuo politiche di inclusione a partire dal rapporto con le altre insegnanti e tra i compagni di classe, facendo sì che la diversità di ciascuno sia un valore aggiunto per tutti noi e un punto di forza”.

Quanto è importante il valore della multiculturalità nel tuo metodo educativo?

“Nel mio metodo educativo è fondamentale la multiculturalità. Mi dà modo come insegnante di trovare sempre soluzioni alternative a adatte a ciascun bambino, mi fa misurare con difficoltà vere e proprie del mestiere, dandomi nuovi stimoli e punti di vista sempre diversi”.

Chiudiamo in bellezza: secondo la tua esperienza personale, cosa potrebbe fare di più la scuola per favorire maggiormente l’integrazione tra bambini fin dalla più tenera età?

“Penso che continuare a parlarne e ad attuare sempre più politiche di integrazione nella scuola fin dall’infanzia, con docenti motivati e preparati, sia l’unica strada percorribile. Se vogliamo questa è la sfida dell’insegnante: sconfiggere la paura del ‘diverso’, dello ‘straniero’, far capire che la diversità non nuoce e ci rende unici nel nostro genere, che dalla diversità possiamo solo apprendere e far tesoro di questa nuova conoscenza, ringraziando chi ci ha dato l’onore di poter conoscere culture e storie di vite diverse dalla nostra”.

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“Mi chiamo Bianca e sono nera. Mia madre mi ha chiamato così per provocazione”

Si chiama Bianca Porteous una bella ragazza di 25 anni, italiana ma di origine giamaicana e da qualche anno cameriera. Bianca e il suo sorriso bellissimo sono la risposta di…

Si chiama Bianca Porteous una bella ragazza di 25 anni, italiana ma di origine giamaicana e da qualche anno cameriera. Bianca e il suo sorriso bellissimo sono la risposta di carattere e personalità contro pregiudizi scaturiti spesso dal suo nome e dal suo colore di pelle. Il suo nome però pare non essere stato scelto a caso, ecco perché …

Ti va di raccontarmi brevemente la tua storia?

“Si certo, sono stata adottata quando avevo sei mesi da una donna italiana di origini siciliane cioè mia mamma. Ero ancora parecchio piccola ma ricordo che facevo avanti e indietro tra Italia e Giamaica fino a quando non mi sono stabilita definitivamente qui all’età di 4 anni. Successivamente ho vissuto a Roma per qualche anno e a 10 sono andata a vivere in Spagna con mia mamma. In Spagna ho frequentato la scuola imparando lo spagnolo. A 16 anni però sono dovuta tornare in Italia perché mia mamma si era ammalata di un tumore al fegato e purtroppo nel 2010 è venuta a mancare. Dopo la sua morte ho deciso di rimanere a Perugia con mio fratello e sua moglie. Qui ho terminato gli studi diplomandomi al liceo artistico e ho iniziato ad entrare nel mondo del lavoro”.

Ti sei sentita accolta qui in Italia?

“Fino ai 15-16 anni assolutamente si. Poi man mano che crescevo mi trovavo a fare i conti con persone che trovavano assurdo il fatto che mi chiamassi Bianca e fossi nera oppure che fossi italiana visto che essendo stata adottata lo sono a tutti gli effetti. Io però nonostante tutto mi sono sempre sentita una persona uguale a tutte le altre. Penso che il vero problema non sia il razzismo ma l’ignoranza di alcune persone”.

Ti piace l’Italia?

“Si mi piace, in particolare per la cultura e il cibo anche se penso che questo Paese riservi un’infinità di cose da apprezzare che talvolta sembra facciamo di tutto per non farle emergere”.

Cosa ti manca del tuo Paese? Se ti ricordi qualcosa dal momento che l’hai lasciato che eri ancora piccolissima.

“Infatti mi ricordo poco a dire il vero, ma anche se ero molto piccola non mi dimenticherò mai del mare della Jamaica che è bellissimo. Presto ci tornerò. La cosa che mi manca di più è il fatto che io non conosca niente del Paese in cui sono nata”.

Come reagiscono le persone quando ti presenti?

“Come ti dicevo prima fino all’età di 15-16 anni non ho mai avuto problemi con le mie origini e tanto meno con il mio nome. Poi però mi rendevo conto che quando mi presentavo qualcuno vedendomi nera e sentendo che mi chiamavo Bianca aveva reazioni di diversi tipi: qualcuno mi chiedeva se era uno scherzo, qualcuno stupito non mi lasciava la mano e continuava a stringerla, qualcuno mi chiedeva di mostrargli un documento e qualcun altro mi ha chiesto perché … credo che mia madre mi abbia dato questo nome proprio per questo, voleva suscitare una reazione dimostrando che Bianca è un nome come tutti gli altri e il nome è solo un nome ma è la persona che conta davvero”.

Ti va di raccontarmi un aneddoto per te significativo che ti è capitato da quando sei in Italia?

“Sì durante una nota manifestazione, una società di catering cercava cameriere per un servizio catering. Io avevo inviato la candidatura e oltre al mio curriculum avevo allegato una mia foto perché così era richiesto. Durante il colloquio uno degli addetti alle Risorse Umane mi chiede chi fossi e io ho risposto di essere la per il lavoro da cameriera; questa persona mi dice che non comparivo nell’elenco degli aspiranti camerieri che avevano fatto domanda e decide di chiamare un suo collega per avere chiarimenti riguardo alla vicenda. Mentre era al telefono con lui sento che si comincia a lamentare del perché non comparisse il mio nome nella lista e perché avrebbe voluto essere informato riguardo al fatto che io fossi nera. Ho denunciato pubblicamente la vicenda sui social qualche giorno dopo senza fare nome e cognome”.

Forse dovremmo interrogarci sul perché se ti chiami Bianca e sei nera ancora oggi questo crei perplessità. Quello che ci rappresenta non è il colore della pelle o il nome ma la nostra persona e il nostro modo di essere.

 

(foto in evidenza di Massimo Palmieri)

 

 

 

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Facciamo un  gioco di ruolo

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo…

Oggi vi propongo un gioco di ruolo. Per circa un minuto cerchiamo di metterci nei panni di quelli che “fanno la pacchia”. Ma prima una mia breve introduzione, mi chiamo Sarah, sono nata il 2 aprile 1986 e ho la fortuna di essere nata in Italia, dalla parte giusta del mondo. Sono nata in una famiglia che, per vivere, ha dovuto fare moltissimi sacrifici, ma alla fine ce l’abbiamo fatta anche se ancora oggi fatichiamo ad arrivare a fine mese, ovviamente – rispetto a tante altre persone – non mi manca nulla. Ad un certo punto anche mia madre ha trovato lavoro, ma con altri due fratelli i sacrifici sono stati tanti. Certo, quando ero più giovane e vedevo i miei compagni di classe che facevano viaggi, avevano vestiti firmati, giocattoli all’avanguardia, ne ero invidiosa. Crescendo e studiando sono però riuscita a capire che i beni materiali non valgono poi così tanto se, nella vita, preferisci la morte di un essere umano solo perché di un colore di pelle diverso o una religione che non riesci a comprendere. Nonostante i tanti sacrifici e grazie all’aiuto di borse di studio, lavoretti come cameriera, baby sitter, “ragazza delle ripetizioni”, sono riuscita a conseguire il dottorato, e quindi mi reputo una persona davvero molto fortunata.

 

E adesso il gioco. Siamo il signor o la signora X che nel lontano anno Y è nata in Yemen, in Nigeria, in Mali, in Senegal, in Siria, in Libia, in Messico, in Venezuela, in Afghanistan, in Iraq, in Palestina o in qualsiasi altra nazione. Ciascuno di noi può scegliere il Paese che vuole, con una sola regola: deve essere presente un conflitto armato, dove vivere è così pericoloso da non poter neanche uscire di casa oppure, dove è così difficile da trovare acqua potabile che, per farlo, dovete camminare almeno 20km ogni giorno. Ok siamo pronti.

 

Io scelgo la Nigeria. La Nigeria è una nazione dell’Africa centrale, colonia britannica dal 1914 alla quale venne concessa la completa indipendenza il 1° ottobre 1960. Questo ha fatto si che sette anni dopo, il gruppo etnico degli Igbo, dominante nella regione orientale, dichiarò l’indipendenza dalla Nigeria che portò a una sanguinosa guerra civile, la guerra del Biafra. Da qui, il detto italiano comune, almeno nella mia provincia, destinato a qualcuno molto magro e mal vestito: «mi sembri uno del Biafra», direi, orribile! Dopo diversi colpi di Stato, prese di potere e soprattutto l’istallazione di compagnie petrolifere hanno provocato un disastro ambientale sul delta del Niger. Distruggendo flora e fauna locali.

 

La Nigeria è al 50% musulmana e al 49% cristiana. Per anni cristiani e musulmani hanno vissuto insieme, non era una questione di appartenere a una religione invece che un’altra, fino a quando il gruppo terrorista Boko Haram ha preso possesso di alcuni territori iniziando a uccidere chiunque andasse contro i loro principi “musulmani”, se così si possono definire. Boko Haram, significa letteralmente “Occidente Proibito”, questo gruppo, ammaliato da un islam mal interpretato uccide chiunque, musulmani e cristiani. Non c’è differenza. Utilizzano bambini per farsi esplodere, hanno rapito nel 2014, 276 studentesse.

 

Ecco, detto ciò, e se voi, se tu, se io, fossimo nati in Nigeria 20, 30 o 40 anni fa? Che cosa avremmo fatto? Saremmo rimasti a farci uccidere o avremmo tentato l’impossibile e utilizzato tutti i nostri risparmi per tentare di sopravvivere da qualche altra parte nel mondo?

Lascio a voi le conclusioni.

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Mamma single e straniera, vi racconto la mia vita complicata ma felice

Una donna soddisfatta vive nel presente ciò che ha sognato una volta Sono Patricia Odia, dalla Repubblica Democratica del Congo. Vivo in Italia da 8 anni, sono una madre single…

Una donna soddisfatta vive nel presente ciò che ha sognato una volta

Sono Patricia Odia, dalla Repubblica Democratica del Congo. Vivo in Italia da 8 anni, sono una madre single di un angelo, come indica il suo nome. Ha 6 anni e fa l’ultimo anno della scuola materna. Sono anche una studentessa al terzo anno di Comunicazione internazionale all’Università per stranieri di Perugia. Sono molto sensibile a tutti gli argomenti relativi agli immigrati e alla loro integrazione in diversi paesi ospitanti. Sono orgogliosa e molto ambiziosa. Molte persone intorno a me mi chiamano femminista, ma io non la penso così, sono solo una ragazza indipendente e contraria agli atteggiamenti maschilisti degli uomini perché credo nelle capacità delle donne. E delle donne africane in particolare.

Patricia è soprattutto una madre, mio figlio è la mia vita e la mia fonte di motivazione

Sono ancora  giovane, avrò solo 27 anni a settembre. Alcune circostanze che ho conosciuto e affrontato mi hanno portato ad una situazione che condividerò con voi.

Quello che vorrei dirvi oggi è che mi sento soddisfatta. Non totalmente felice, ma abbastanza appagata nel prendermi cura di me stessa e di mio figlio. Eppure, ogni giorno è difficile. Ho così tanti fardelli sulle mie spalle che a volte vorrei lasciarmi andare e andar via. Ma posso? No, ho delle responsabilità e le affronto a testa alta.

Durante i primi giorni della gravidanza, non avevo smesso di frequentare l’università dove stavo seguendo i miei corsi di lingua italiana. È stato un momento così difficile. Alle fragilità della gravidanza che mi sentivo addosso, si aggiungevano i problemi familiari: i miei mi hanno lasciata da sola perché li avevo disonorati; le difficoltà finanziarie: era mio padre a prendersi cura di me, ma dopo avere saputo della gravidanza, era insopportabile.

A volte mi sono ritrovata da sola a piangere, non sapendo cosa fare e su chi potevo appoggiarmi per dimenticare tutto questo, non avendo nessun al mio fianco, nemmeno i miei genitori. Grazie a Dio ho trovato una zia comprensiva e molto dolce, che mi ha aperto la porta della sua casa, non mi ha causato grossi problemi, al contrario, ho trovato il conforto in lei, ha saputo sostituire la mia mamma, mi è sempre stata vicina nei momenti difficili. Lei e la sua famiglia mi hanno portato restituito la serenità.

È vero che non sembro una giovane donna di 27 anni, ma non sono così vecchia.  Alla mia età, molti hanno genitori su cui possono contare e provvedere a loro. E magari trovano un modo per lamentarsi e dire che non è abbastanza. Certo, la mia faccia non può essere piena di candore, dopo quello che ho vissuto e la maternità che lascia le tracce. Se dico qualcosa sulla mia esistenza, non è a causa dell’angoscia, è solo perché non c’è nulla da temere, il peggio è dietro di me. Sono molto sincera, presumo, gli eccessi del mio passato non mi spingono verso idee suicide, al contrario, traggo una forza che mi permette di battere e combattere un percorso che mi porterà ad un futuro migliore.

Non dire mai cose brutte a te stesso, ci sono già abbastanza persone che lo fanno.

La mia vita non è infelice. Nonostante le responsabilità, il lavoro, gli studi, le preoccupazioni. Non mi definisco infelice. Ho trovato la mia strada. E forse disseminata di insidie, ma le affronto in una lunga scalata passo dopo passo. Corro verso la felicità e grazie a Dio non sono ancora caduta in un precipizio.

Se ho saputo superare questa prova e mantenere il mio buon umore che voglio condividere con voi, è solo perché non dobbiamo lasciare che nulla ci tolga la gioia di vivere. Ogni giorno è difficile e a volte non so come arrivare alla fine del mese, ma Dio provvede sempre a modo suo. Dobbiamo solo dire “è una situazione temporanea, domani sarà migliore”.

E tutto questo non è possibile senza fare pace con se stessi e gli altri, essere in grado di perdonare se stessi per aver commesso alcuni errori, essere intrappolati qualche volta e soprattutto essere stati ingenui. Il perdono è un potere che libera.  Sono una madre, orgogliosa e soddisfatta. E nessuno potrà mai strapparmi la mia gioia di vivere.

 

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Ho sposato uno straniero: 7 domande che ti stressano la vita

Non so a voi, ma spesso capita sentirmi fare domande senza senso. Mio marito è nato in un Paese musulmano, l’Iran, ignoto quasi al 50% della popolazione e il restante…

Non so a voi, ma spesso capita sentirmi fare domande senza senso. Mio marito è nato in un Paese musulmano, l’Iran, ignoto quasi al 50% della popolazione e il restante 50% lo conosce a causa della “bomba nucleare” 💣e degli Ayatollah 👳‍♀️👳🏾‍♂️. Non basta e ancora non è finita. In una società così “avanzata” come quella italiana, le domande che mi fanno, sono così incredibili che a volte mi chiedo, ma seriamente? Ecco alcuni esempi:

 

  1. Ah… l’Iran 🇮🇷… si, ma che è quella nazione dove le donne portano il burqa🧕🏽?
  2. Ma tuo marito, lo mangia il maiale 🐖?
  3. Tuo marito, beve alcol 🍸🍾?
  4. Aspetta, l’Iran è quel Paese in cui le donne non possono uscire di casa 🏠✋🏽?
  5. Tuo marito ti da il permesso di uscire a maniche corte🙅🏽‍♀️?
  6. Sei stata mai in Iran? È pericoloso? Mi raccomando, quando vai, stai attenta!‼⛔🚫❓⚠
  7. Ma tua suocera com’è? Hai un buon rapporto con lei? 👩‍👦

 

Bene, anche per questa puntata è tutto, non so voi, ma vi capita di ricevere questo tipo di domande? Se si, come reagite? Cosa ne pensate? Se avete voglia di condividere con me le vostre esperienze scrivete a info@blogniu.it, con oggetto (Rubrica: Ho Sposato Uno STRANIERO).

 

 

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Humans of Umbria: Ilam e la scuola di integrazione

Per il suo quarto appuntamento #humansofumbria cambia formato e vi porta un’intervista piena di spunti interessanti: la testimonianza di Ilam, studentessa di medicina e volontaria dell’ANT, sull’integrazione e su come…

Per il suo quarto appuntamento #humansofumbria cambia formato e vi porta un’intervista piena di spunti interessanti: la testimonianza di Ilam, studentessa di medicina e volontaria dell’ANT, sull’integrazione e su come insegnarla ai bambini

Sono in Italia da 19 anni ma sono nata in Marocco, sono cittadina marocchina. Sono arrivata qua quando avevo 8 mesi, ho fatto tutte le scuole in Italia. Sono perugina e parlo perugino.

Riguardo l’accoglienza degli stranieri la situazione è cambiata molto, da come era l’Italia a come è diventata. Penso che quando ero piccola gli stranieri erano molto graditi. Ora forse un po’ meno. Questo influenza la nostra vita quotidiana, e influenza anche molto il rapportarsi con gli altri. Secondo me influisce molto la politica, un po’ anche l’attualità, ma soprattutto la propaganda: come i discorsi, gli argomenti vengono trattati, soprattutto in televisione e nei giornali. Non bisogna solo vedere magari un telegiornale e dire che “hanno ragione”, uno deve ragionare con la propria testa. Perché quello che fa la propaganda è proprio questo, portare le persone a capire certe cose che sono sbagliate, fino a pensare che tutti gli stranieri sono “fatti male”. Si dovrebbe ragionare con il proprio cervello, usare la logica e farsi due conti in testa, serve il pensiero critico insomma. “Toccherà movece!”.

Per quanto riguarda Perugia dal punto di vista dell’integrazione è messa abbastanza bene. Però fuori dalla città, nei piccoli paesini siamo ancora un passo indietro. Lì troviamo più vecchi che giovani, che influenzano anche la mentalità di quei pochi giovani che vivono nel paesino, come quello in cui vivo io. Vedo la situazione e sinceramente non mi piace. Prima di mettere il velo mi trattavano in un modo, una volta che l’ho messo… in un modo completamente diverso. Questo non dipende dal fatto che abitiamo in Umbria, ma dal fatto che viviamo in un piccolo paesino, dove non c’è integrazione. La gente non esce, non vede altri posti, non si informa. E quindi rimangono bloccati, racchiusi in quel paesino. Sono nati così e non hanno l’idea di cambiare.

Le scuole potrebbero essere importanti per cambiare questa situazione. È un ottimo punto di partenza. Non dico nelle scuole delle città principali. Ma quelle piccole scuole materne, medie, che sono nei paesi più piccoli. Secondo me ci dovrebbe essere una materia di “integrazione” fatta proprio apposta. Anche mescolare i ragazzi può essere utile: io ho fatto le scuole e comunque sinceramente non ho mai vissuto situazioni di razzismo fortunatamente, forse perché sono aperta. Però osservo molto, e vedo che le altre persone straniere tendono a fare i gruppetti: gli italiani da soli, gli stranieri da soli. Questo dipende anche dai professori, dalle maestre. Bisogna comunque insegnare al bambino, fin da piccolo, ad integrarsi con lo straniero. Non insegnare a fare gruppi, perché così non è una buona educazione.

Il banchetto? Questo è il mio “lavoro” quando ho tempo libero. È per un’associazione, ANT (Associazione Italiana Tumori), diamo assistenza domiciliare gratuita ai malati oncologici. Facciamo anche prevenzione, con visite preventive sempre gratuite. Diciamo che è un hobby, una cosa che mi piace, una passione più che un lavoro, e spero di continuare la mia strada. Sono fiera di quello che sono. Non vorrei cambiare la mia vita.

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Ho sposato uno straniero: 5 regole per appropinquarsi ai fiori d’arancio

Orbene se siete arrivati a questo punto, quasi sicuramente avete rispettato tutte le dieci regole precedenti, ma la domanda è: come sopravvivere all’organizzazione di un matrimonio misto? Ebbene, io ci…

Orbene se siete arrivati a questo punto, quasi sicuramente avete rispettato tutte le dieci regole precedenti, ma la domanda è: come sopravvivere all’organizzazione di un matrimonio misto? Ebbene, io ci ho messo due anni, tre cerimonie 🤪(almeno per ora… ne manca una! 😈, e un bel po’ di divertimento (🤫per non parlare di stress!).

Procediamo quindi con gli ingredienti per la riuscita di un’ottima cerimonia 💑:

💟 Fate la lista degli invitati. Voi direte, ma che scemenze sono 🤨? Questa si fa in ogni caso… eh voi la fate facile, mio marito ha trentasei cugini primi, e io circa un centinaio tra parenti e amici 😱🤓🤪. Ecco perché abbiamo deciso di celebrare due matrimoni, uno in Italia e uno in Iran (gli altri due sono stati in ambasciata e in comune!). Totale? Quattro 🤣!!!

💟 Iniziate con i documenti necessari, l’andirivieni dall’ambasciata al comune di residenza e poi alla questura, non è semplice😠!

💟 La scelta del menù: non stressatevi troppo, fatelo misto! Un po’ di cibo della vostra cultura e un po’ di quello del vostro/a partner🍝🥘. Insomma se “se magna bene”, invitatemi😸!

💟 Non siate troppo permissivi/e: una bracioletta di maiale per te 🥩, una coscetta di pollo halāl per lui/lei 🍗; un bicchiere di vino per te🍷, uno di succo di frutta a lui/lei🍹… mi sembra più che giusto no?

💟 Segnaposto e bomboniere: cosa fare? Facile.estero😉! Un “gingilletto” italiano e un “gingilletto” straniero… per far conoscere ai miei parenti l’Iran, ho deciso che come segnaposto avrei utilizzato delle bustine con del tè iraniano (bevanda nazionale) e una foto delle città più importanti! Per bomboniera? Un copri mobiletto iraniano e un fazzolettino ricamato all’uncinetto da mia nonna, con dentro confetti mandorlati, davvero squisiti!

 

Anche per questa puntata è tutto. E se siete in procinto di sposarvi, beh… ne siete sicuri? 😝😜🤣

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Essere diversi, essere uguali: dall’invenzione della razza ai giorni nostri

Siamo nel 2018 ma sembra che le cosiddette società occidentali invece che «fare grandi passi in avanti per l’umanità», stiano facendo enormi passi indietro. Con l’avvento di internet e la…

Siamo nel 2018 ma sembra che le cosiddette società occidentali invece che «fare grandi passi in avanti per l’umanità», stiano facendo enormi passi indietro. Con l’avvento di internet e la possibilità per tutti di entrare a far parte di quel mondo virtuale globalizzato, vecchie ideologie naziste, fasciste e razziste, sembrano essere riaffiorate, lasciando da parte quel concetto di uguaglianza tanto voluto dalla Rivoluzione Francese. Da cosa è dato il fenomeno? Forse è sempre stato lì, ma in qualche modo c’era vergogna di renderlo pubblico? Forse sta riaffiorando a causa di una legittimazione data dall’anonimato?

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