Baby gang: una microcriminalità in crescita

Ultimamente i riflettori dei media sono puntati sui preoccupanti atti di violenza da parte delle baby gang: un gruppo di giovani e giovani adulti che compiono non solo di atti…

Ultimamente i riflettori dei media sono puntati sui preoccupanti atti di violenza da parte delle baby gang: un gruppo di giovani e giovani adulti che compiono non solo di atti vandalici, ma brutali risse, pestaggi, rapine e addirittura sequestri.

La domanda che sorge spontanea è: perché tutta questa violenza?
La rappresentazione dei media ha evidenziato il fenomeno di crescente violenza che ha accompagnato la diffusione delle baby gang facilitandone l’etichettatura come semplici criminali. Ma quello che viene spesso tralasciato sono le motivazioni ed i background sociali/familiari che possono aver portato i ragazzi a finire in questi gruppi, in un cui prevale una sorta di codice d’onore in cui devi essere un criminale per farti rispettare: è solo così che potrai essere “all’altezza del gruppo”.

Ma cosa si nasconde davvero dietro questa facciata?

L’Università Cattolica di Milano, attraverso uno studio realizzato dal centro Transcrime, ha dimostrato che il fenomeno delle baby gang è in forte aumento: sono gruppi di giovani o giovanissimi, per lo più di età compresa tra i 15 e i 17 anni, che compiono atti vandalici recando danno soprattutto ai loro coetanei; sempre secondo questo studio non sempre si tratta di gruppi criminali ma di gruppi improvvisati da ragazzini, provenienti anche da famiglie benestanti, che vivono un disagio esistenziale e periodi di smarrimento, che affrontano prendendo come esempio modelli sbagliati.
Sembra che seguire questi “modelli” sia l’unica via d’uscita, l’unica alternativa in una società di cui non si sentono parte e dalla quale si sentono abbandonati.

Dall’altra parte, abbiamo anche dei giovani spaventati dal futuro per il clima di incertezza in cui viviamo a causa della pandemia e della guerra. Questo, di conseguenza, porta quelli di loro che vivono situazioni più precarie e in cui sono meno incoraggiati, ad abbandonarsi a strade “facili” per non dover affrontare il rischio di fallire: molti di loro abbandonano gli studi pensando di non essere all’altezza oppure non cercano lavoro perché sottovalutano le proprie potenzialità.

Sono giunta alla conclusione che la società abbia perlopiù una visione negativa e superficiale dei ragazzi; piuttosto che creare dei canali di comunicazione e cercare di vedere la realtà con i loro occhi per capire e vincere le sfide che si trovano davanti, per aiutarli ad elaborare ed esprimere i propri sentimenti, si tende ad addossare tutta la responsabilità a loro di quel che ne è del loro futuro. Cosa che risulta più semplice che dover ammettere la responsabilità che gli adulti hanno nei confronti della crescita e della formazione dei giovani.

“MOLTI OGGI PARLANO DEI GIOVANI; MA NON MOLTI, CI PARE, PARLANO AI GIOVANI”. 
(PAPA GIOVANNI XXIII)

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DREAMM: SOGNANDO INSIEME UN’INTEGRAZIONE RECIPROCA

Sono ormai diversi mesi che il progetto DREAMM è decollato con iniziative ed eventi incentrati sull’interculturalità, vedendo il coinvolgimento di Lead Mentors, Mentors e delle persone arrivate da poco in…

Sono ormai diversi mesi che il progetto DREAMM è decollato con iniziative ed eventi incentrati sull’interculturalità, vedendo il coinvolgimento di Lead Mentors, Mentors e delle persone arrivate da poco in Europa. Il carattere innovativo di DREAMM è racchiuso nel concetto di integrazione bi-direzionale. Le iniziative di aggregazione sociale e culturale volte al raggiungimento di una migliore comprensione e consapevolezza di valori, tradizioni e culture altrui, favoriscono un senso di appartenenza comune. Attraverso una reciproca integrazione sarà possibile giungere ad un mutuo arricchimento culturale andando oltre gli stereotipi e ostacolare fenomeni di discriminazione, razzismo e xenofobia. Se sei curioso di lanciarti in questa iniziativa e di immergerti in un contesto culturalmente variegato e stimolante, ti aspettiamo ogni lunedì e mercoledì pomeriggio per il “One Roof Community Meetup” dalle ore 17:00 alle 18:00 presso la casa dell’associazionismo in via della Viola, 1. Sarà una preziosa occasione per conoscere persone di diversi Paesi e confrontarsi su tematiche culturali come strumento di conoscenza e integrazione reciproca, non da ultimo rispondere alle difficoltà e alle necessità delle persone giunte da poco in Italia, attraverso l’individuazione di obiettivi e servizi. Questi incontri saranno anche un’opportunità per raccontarsi e conoscersi, per questo è importante non mancare.

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In bilico tra due mondi

Sin da piccola vivo in bilico “tra due mondi” culturali completamente diversi: quello delle mie origini in cui c’è la mia famiglia, le tradizioni e i valori islamici che mi…

Sin da piccola vivo in bilico “tra due mondi” culturali completamente diversi: quello delle mie origini in cui c’è la mia famiglia, le tradizioni e i valori islamici che mi sono stati insegnati dalla nascita; e quello italiano, in cui sono nata e cresciuta, in cui ci sono i miei amici e la cultura del Paese che ha accolto i miei genitori.

Interfacciarmi tra questi due mondi, soprattutto nel periodo adolescenziale, mi ha portata a vivere una grande crisi d’identità in cui ho iniziato a chiedermi: “chi sono io?”.

Per anni mi sono chiesta se sarebbe stato più facile nascere e crescere in Marocco oppure nascere in Italia da genitori italiani, mi sono chiesta cosa fosse giusto o sbagliato: ciò che era “normale” per una cultura era strano o non accettabile per l’altra, e viceversa; ho iniziato a mettere in discussione tutta la mia vita, partendo da me.

Per le persone sono straniera solo per il mio nome, per i miei tratti somatici e per il velo che porto. Camminare tra gli sguardi diffidenti e giudicanti delle persone, con il tempo, ha sviluppato in me la costante paura di non essere accettata e di conseguenza mi ha fatta sentire sbagliata e fuori luogo.

Come posso sentirmi un’estranea a casa mia, nel Paese che mi ha vista nascere e crescere?

Nonostante le mille domande e i mille dubbi che mi hanno assalita nel corso degli anni, sono riuscita a trovare la mia strada senza rinunciare a nessuno dei miei due mondi, senza aver più paura degli sguardi delle persone.
Ho capito che, noi figli di seconda generazione siamo il bellissimo risultato di un mix di culture, diverse ed ognuna unica a modo suo e non dobbiamo necessariamente schierarci da una parte per essere accettati.

Non siamo noi ad essere sbagliati.
È sbagliato chi non comprende, è sbagliato di giudica, è sbagliato chi non apprezza la nostra unicità.


			
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Il dualismo socio-culturale dei figli di seconda generazione

In quanto figlia di seconda generazione, mi sembra doveroso trattare questa tematica in prima persona, considerando che diverse volte, soprattutto in questi ultimi 2 anni, mi è capitato di (per…

In quanto figlia di seconda generazione, mi sembra doveroso trattare questa tematica in prima persona, considerando che diverse volte, soprattutto in questi ultimi 2 anni, mi è capitato di (per via della continua esposizione a contenuti sui social che trattano tali argomenti, e le opportunità di confronto che ho avuto modo di avere con altri giovani dall’egual casistica) fermarmi un attimo e interrogarmi su come volessi definirmi, qualora avessero chiesto la mia provenienza.

‘da dove vieni’ ‘di dove sei’ ‘parli molto bene l’italiano’… queste sono solo alcune delle tante frasi e domande alla quale noi ‘figli dell’immigrazione’ siamo costretti a sentirci dire da persone sconosciute che non appena notano un tratto somatico diverso dal loro, invece di chiedere ‘come ti chiami’ o ‘quanti anni hai’, o ancora ‘cosa ti piace fare nella vita’, si permettono di chiedere senza (il più delle volte) un minimo di tatto, da dove vieni.

Potrebbero ora sorgere polemiche dove alcuni obietteranno dicendo ‘ma io non faccio questa domanda per cattiveria, è solo curiosità’, certo, è comprensibile. Ma la domanda che a questo punto mi sorge spontanea è: ‘se tu incontrassi ora una persona esteticamente tale e quale a te, le chiederesti immediatamente da dove venga?’.

Si dà dunque per scontato che tutte le persone bianche e caucasiche, siano italiane. Nel momento in cui si vede qualcuno che non rispetta questo canone, non puoi allora essere considerato di tali origini.

E questo porta a ciò che io definirei come un ‘dualismo socio-culturale’ alla quale i giovani di seconda o terza generazione sono costretti a vivere, dal momento in cui mettono piede nel mondo esterno. E sorgono domande e dubbi ‘mi sento più nigeriana o italiana o viceversa?’ ‘sono solo nigeriana perché ho la pelle nera, e i neri non possono essere italiani?’ ‘ma non sono mai stata in Nigeria, come posso definirmi anche di quelle origini? A quale comunità mi sento più appartenente o legata?’ ‘e poi, devo per forza definirle le mie origini? Perché non posso essere semplicemente considerata cittadina del mondo?’. 

Queste domande, tendono a sorgere (almeno nella mia esperienza personale) ad una età più o meno adulta, intanto però quando si è ancora adolescenti, la situazione è ben diversa, perché non ci si pensa più di tanto a dare peso a ciò. Si tiene comunque conto di essere diversi o di avere qualcosa di diverso dai propri coetanei, ma si cerca di camuffarlo il più possibile cercando di entrare a far parte della comunità del luogo in cui si è nati, di adottare certi atteggiamenti, modi di fare e parlare, a costo di andare anche contro qualche regola restrittiva imposta dalle proprie tradizioni o dai propri genitori.

Si vuole far vedere di essere ben integrati in quella comunità ‘’ospitante’’, al fine di non essere più considerati come ospiti ma come cittadini uguali a loro. Però quando si ritorna a casa, ci si rende conto di dover rimuovere quella maschera sociale che abbiamo esibito nel mondo esterno, e di doverne indossare un’altra che possa essere considerata idonea a ciò che le nostre origini ci richiedono e si aspettano da noi. Ma non sempre ci si riesce, e così ecco che arrivano i commenti tipici dei genitori, o altri parenti ‘ti comporti come gli italiani’, ‘non sei abbastanza nigeriana (o qualunque altra nazionalità)’, e questo non fa altro che confondere ulteriormente, nel corso della crescita, i figli con doppia cultura, che si ritrovano così a vivere un conflitto interiore su cosa si sentano veramente.

Fortunatamente nel corso di questi ultimi anni, sono stati introdotti dei termini che potrei definire ‘ombrello’, che racchiudono tramite una parola composta, la doppia nazionalità di noi figli di seconda generazione, come per esempio ‘’italo-nigeriano/italo-rumeno…’’ o in maniera più generale ‘’Afro-italiano/Afro-europeo/Afro-americano..’’ e questo sembra in qualche modo rendere più facile rispondere alla domanda ‘che origini hai’. Ritengo, tuttavia, che forse potremmo tutti e tutte, iniziare ad essere un po’ meno categorici nel definirci, e iniziare ad assumere una visione di appartenenza, più aperta, cosmopolita, mondiale.

Perché in fin dei conti, è proprio questo, il mondo, la nostra casa comune ed esso ci accoglie indipendentemente dalla nostra duplice cultura e cittadinanza.

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Tiàwuk: alla scoperta di un nuovo pianeta. Il viaggio di Gabriele Cecconi tra realtà e finzione

Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione…

Il talento e la sensibilità di Gabriele Cecconi, fotografo documentarista perugino, ci hanno permesso di scoprire TiàWuk, definito da lui stesso un altro pianeta. Durante una mostra fotografica presso l’associazione Istanti, il fotografo ci ha raccontato della sua esperienza in Kuwait e di come sia maturata l’idea di creare un progetto fotografico in grado di restituire la complessità di un mondo “distopico” e di un Paese caratterizzato da un modello islamico contrapposto ad un sistema capitalista.

“Ho conosciuto il Kuwait tramite una minoranza etnica e così è stato possibile raccontare il mondo arabo andando oltre gli stereotipi che vengono attribuiti dal mondo occidentale. Ero interessato a come le persone vivono in un ambiente dove da un punto di vista estetico realtà e finzione sono due facce della stessa medaglia”.

L’esperienza in Kuwait ha consentito a Gabriele di documentare un Paese dalle molteplici contraddizioni, dove gli eccessi e la ricchezza economica lo caratterizzano. Ne sono testimonianza la raccolta di foto che ci ha presentato.

“Sono stato ospitato da un ricco kuwatiano che nella sua sfarzosissima villa teneva un ghepardo come fosse un gattino. Lì per lì ho avuto anche un po’ di paura non essendomi mai trovato così vicino un animale del genere”.

Il progetto di Gabriele ci ha permesso di “viaggiare” attraverso il suo approccio e linguaggio fotografico in un Paese così diverso e così surreale che solo i sui scatti ne colgono la complessità e ne attribuisco un profondo significato che lascia riflettere sulla natura umana e sulla sua fragilità interiore.

Kuwait City, Emirate of Kuwait, 13/03/2019 – A cheetah is seen inside a private house. After raising a lion for 3 years, the owners now takes care of two cheetahs that roam freely around the living room of his house. Despite it’s now illegal to own wild animals, there is still a lot of Kuwaiti citizens who. want them as a form of obstentation and status. Ph Gabriele Cecconi

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Community Action: partecipare al cambiamento

Come partecipare al cambiamento di una comunità? È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra…

Come partecipare al cambiamento di una comunità?

È una domanda che non ha una risposta diretta, ma piano piano penso che ciascuno si crei la propria versione della risposta, tra le diverse attività e azioni da intraprendere.

Nel mio caso, grazie alla partecipazione al progetto europeo DREAMM. L’esperienza mi sta facendo scoprire la bellezza e la complessità di lavorare una comunità diversa che lavora per un obiettivo comune: una società più inclusiva e multiculturale.

L’ultimo task all’ordine del giorno è la creazione di uno spazio comune, interculturale, accogliente, dinamico ed aperto a tutti.

La call to action per la creazione di un Community Space innovativo mira a realizzare lo spazio partendo dai bisogni e dalle idee della popolazione locale.

Per ascoltare le voci della comunità locale sono pensati diversi appuntamenti, per favorire il coinvolgimento e la partecipazione attiva della popolazione della zona.

Il primo evento sarà Mercoledì 20 Aprile 2022, alle ore 16.00 presso l’Aula V del Dipartimento di Fissuf, Piazza Giuseppe Ermini 1, Perugia.

Curioso di essere dei nostri?

Be the change you wish to see in the world!

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Vorrei poter tornare a Casa…

C’è una poesia di Gianni Rodari che risuona spesso nella mia testa. Si intitola “Il treno degli emigranti“. Pochi versetti, in cui è rinchiuso tutto quello che un emigrante porta…

C’è una poesia di Gianni Rodari che risuona spesso nella mia testa. Si intitola “Il treno degli emigranti“.

Pochi versetti, in cui è rinchiuso tutto quello che un emigrante porta con sè quando decide di lasciare la sua terra natale per cercare fortuna altrove, quella terra tanto amata che però non gli dà da mangiare per poter vivere.

Spesso chi non emigra non ha minimamente idea delle emozioni che prova una persona che lo fa.

Le ragioni per cui un qualcuno decide di emigrare sono molteplici, ma non per questo più o meno importanti. La valigia di cui parla Rodari è una valigia che non contiene scarpe o sapone o asciugamani. E una valigia che contiene la terra del villaggio, il pane e una frutta fresca, le cose materiali che più si avvicinano a ciò che conosciamo e che ci rendono felici.

Mi ricordo ancora quel giorno in cui decisi che l’emigrazione era l’unica scelta possibile per me e mio marito. Passai un paio di settimane a trovare tutte le scuse possibili e inimmaginabili per non doverlo fare, tuttavia, in quel momento lì, forse, era la scelta più sensata. Di sicuro non scappavamo dalla guerra o da altre situazioni difficilissime, semplicemente ci trasferivamo da un Paese europeo ad un altro.

Per me una tragedia. Avete presente quando Heidi viene portata di forza dalle Alpi a Francoforte e inizia a fare la sonnambula di notte perché le mancano le montagne? Beh, a me succede più o meno una cosa del genere. Qualche volta il mio stress è così forte che il mio fisico non lo regge, e reagisce scatenando diverse infezioni e/o malanni.

Per me l’emigrazione nei Paesi Bassi è stata ed è un calvario, non riesco a integrarmi in questa società, e stiamo parlando di una nazione europea.

Penso a come gli altri emigranti come me possano sentirsi, soprattutto quelli che scappano da condizioni disperate come guerra, mancanza di acqua, cibo, eccetera. Me lo chiedo spesso, come si può arginare la nostalgia?

Ah, la nostalgia… Secondo la definizione di Treccani:

Nostalgìa s. f. [comp. del gr. νόστος «ritorno» e -algia (v. algia)]. – Desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano […] Per estens., stato d’animo melanconico, causato dal desiderio di persona lontana (o non più in vita) o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque lontano: n. degli amici, dell’affetto materno; n. della giovinezza lontana; n. dei tempi passati.”

In portoghese, Saudade, non può essere tradotto. Impossibile. La nostalgia non ha cura chimica, l’unica soluzione è quella di poter tornare a casa, di poter vivere lì, dove ti senti appartenere, con la tua terra, il pezzo di pane senza sale e un frutto, tutto ciò che conta.

Non è grossa, non è pesante

la valigia dell’emigrante…

C’è un po’ di terra del mio villaggio,

per non restar solo in viaggio…

Un vestito, un pane, un frutto

e questo è tutto.

Ma il cuore no, non l’ho portato:

nella valigia non c’è entrato.

Troppa pena aveva a partire,

oltre il mare non vuole venire.

Lui resta, fedele come un cane,

nella terra che non mi dà pane:

un piccolo campo, proprio lassù…

Ma il treno corre: non si vede più.

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MIGRAZIONI DI CLASSE

“Loro sono i veri rifugiati”. Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così,…

Loro sono i veri rifugiati”.

Sembra la frase di una frangia populista della politica italiana o l’inevitabile conclusione di alcune conversazioni casualmente captate in certi bar. Eppure, non è così, mi trovo di fronte ad un operator* del settore dell’accoglienza rifugiati.

Siamo di fronte ad un caffè all’ombra del sole caldo di agosto. È l’agosto del 2021 e stanno arrivando in Italia i primi rifugiati dall’Afghanistan. Per quanto diverso il viaggio e la legalità del loro arrivo anche loro sono rientrati nel circolo delle richieste asilo e nel percorso necessario per l’ottenimento dello status di rifugiato, con i documenti che ne conseguono e la speranza di ricrearsi una vita.

Io prendo sempre il caffè amaro, adoro l’impatto iniziale che ha sulle labbra e il modo in cui si ritira la lingua a contatto col sapore forte del caffè. Sono alla fine di una giornata di lavoro particolarmente faticosa, i nuovi arrivi, l’assegnazione delle camere, provare a spiegare le regole del centro e il funzionamento del procedimento burocratico per l’ottenimento dei documenti. La fortuna di avere una lingua di comunicazione, l’inglese, è fondamentale. La mia giornata sta finendo e con dei colleghi commentiamo la fortuna di avere una lingua con cui comunicare con i rifugiati afgani appena arrivati al centro. Mi sto godendo la digestione al sole quando sento:

loro sono gli unici che hanno davvero il diritto di stare qui. Loro sono i veri rifugiati”.
La digestione si blocca.

Voglio premettere che io sono bianca, né ricca, né povera, ho sempre lavorato e studiato per aiutare la mia famiglia ma ho il lusso di studiare e vivere secondo la mia più semplice naturalezza. Dico questo perché penso sia una parte importante della mia reazione, chiamiamolo senso di colpa bianco, chiamiamolo buonismo, chiamiamola educazione cristiana ma questa distinzione tra immigrazione di serie A e immigrazione di serie B mi ha fatto andare di traverso il caffè.

Perché distinguere chi lascia casa propria, le proprie radici, i propri affetti, la propria lingua, classificandolo in base al motivo per cui decide (o è costretto) a fuggire? Quello che mi chiedo davvero è perché far ricadere su di loro la pesantezza di una categorizzazione così forte? Vogliamo dire che non poter dare da mangiare alla propria famiglia non è un motivo valido per cercare qualcosa di meglio? Il padre di mia nonna lavorò in Germania per molte estati in una miniera, in cosa era diverso?

Certo potremmo criticare il sistema di accoglienza, il fatto che un procedimento di richiesta di asilo può durare anche sette anni, durante i quali la persona dietro il processo, lavora, trova amici, crea quotidianità, si arrabbia, è felice, magari si innamora se è fortunato. E dopo sette anni di rinnovi del permesso di soggiorno ti dicono che non puoi più rimanere, che ora, dopo sette anni, devi lasciare di nuovo quella che magari avevi iniziato a sentire un po’ come casa tua.

Potremmo criticare certo, una mancanza di distinzione tra le motivazioni che portano alla migrazione, non classificandole ma gestendo i processi burocratici e gli status valutando i perché oltre al cosa, valutando cosa mi ha spinto così da sapere anche cosa cerco alla fine di questo viaggio. Ma perché ma perché far ricadere una classificazione gerarchica su chi tutto questo processo lo subisce? È “colpa” del ragazzo bengalese di venti anni, scappato per dare un futuro alla famiglia, se si è ritrovato nella macchina del richiedente asilo quando lui vorrebbe solo lavorare e mandare i soldi a casa? È colpa del Burkinabé’ fuggito da Boko Haram se il paese non dichiara uno stato di emergenza al confine col Mali?

La cosa che trovo ancora difficile da accettare, a distanza di mesi, è come questa distinzione sia stata trasferita sulla realtà giornaliera, non solo nel trattamento giuridico, nei tempi di attesa e nella priorità data a tutti i livelli della macchina burocratica, ma, soprattutto, del trattamento relazionale riservato a seconda della provenienza.

Certo, la fuga da una guerra in corso e da una situazione come quella dell’Afghanistan e dell’Ucraina rende necessaria la velocizzazione del processo ed è evidente che i controlli necessari dopo le dichiarazioni siano quasi inutili rispetto alle altre situazioni. È anche inevitabile che un uomo istruito e benestante faccia richieste diverse rispetto ad un ragazzo ventenne poco più che alfabetizzato e che le possibilità di comunicazione siano differenti. Sicuramente sarà solo il primo a chiedere la convalida di un titolo universitario e avrà bisogno di un aiuto in questo, cercherà un altro tipo di lavoro, potrà spiegarsi quando è triste, quando sta male, se non riesce a dormire perché i Talibani sono entrati nella casa dove vive sua moglie che non è riuscita a scappare..

E certamente, sarà inevitabile, riconoscere un problema di fondo nella politica di accoglienza italiana che non contempla i rifugiati economici o i rifugiati climatici tra le possibilità per le quali fare richiesta di soggiorno.

Ma questo giustifica una distinzione così classista tra immigrati “come noi” e immigrati “diversi”? rifugiati di serie A e rifugiati di serie B?

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Insieme verso un sogno condiviso: DREAMM

“A dream you dream alone is only a dream. A dream you dream together is reality.”John Lennon Oggi voglio condividere con voi un progetto, che in sé è un’esperienza, un’opportunità…

“A dream you dream alone is only a dream. A dream you dream together is reality.”
John Lennon

Oggi voglio condividere con voi un progetto, che in sé è un’esperienza, un’opportunità di mettersi in gioco, di crescita, di apprendimento informale, di riflessione e anche molto di più: il progetto DREAMM.

Come si può intuire dal nome, il termine deriva dall’inglese dream e significa sogno/ sognare. DREAMM è il nome del progetto europeo per l’integrazione e la promozione interculturale tra la comunità locale e i migranti appena arrivati, i third country nationals (TCNs).
Per lo stesso principio per cui i sogni prendono vita se condivisi dai più, ecco che dream diventa DREAMM, per inglobare nell’identità del progetto la sua parte innovativa.

La doppia consonante ha così una valenza figurativa, per includere sia i Mentors appartenenti alla comunità locale, sia i Migrants, beneficiari del progetto – TCNs.

Come si svolge il progetto? Cosa c’è di innovativo?

Semplice! La creazione di una rete di volontari, i mentors, appartenenti alla comunità locale, disponibili a supportare i migranti nelle sfide quotidiane della società d’arrivo. Ciò avviene tramite un processo d’orientamento sociale che si sviluppa come una relazione di mentorship peer-to-peer che permette una crescita e arricchimento bi-direzionale.

Le figure del progetto sono: lead mentors, mentors, Third countries nationals.
I lead mentors sono perlopiù professionisti attivi nel settore dell’accoglienza, con esperienza nel sociale, a supporto dei mentors.
I mentors sono giovani ragazzi, studenti universitari, donne, seconde generazioni.. insomma chiunque sia motivato e interessato ad intraprendere un percorso di arricchimento attraverso l’interazione interculturale.
I Third countries nationals, beneficiari ultimi del progetto, sono i cittadini di Paesi terzi presenti nella comunità locale, all’inizio del loro percorso d’inserimento nella società d’arrivo.

Il progetto ha portata internazionale ed è già attivo in altri 6 Stati Europei.

Io sono già una mentor.. Potresti scegliere di diventarlo anche te! Curioso di saperne di più?

Ti aspetto mercoledì pomeriggio dalle 15.00 alle 17.00 in via della Viola 1, PG, nella sede di CIDIS Onlus, per l’appuntamento settimanale del “One Roof Community Meetup!

Vieni con noi in un viaggio alternativo attraverso lingue, culture, e Paesi diversi, nell’attesa di poter tornare a viaggiare davvero!

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