Autore: Selma Khadra

Baby gang: una microcriminalità in crescita

Ultimamente i riflettori dei media sono puntati sui preoccupanti atti di violenza da parte delle baby gang: un gruppo di giovani e giovani adulti che compiono non solo di atti…

Ultimamente i riflettori dei media sono puntati sui preoccupanti atti di violenza da parte delle baby gang: un gruppo di giovani e giovani adulti che compiono non solo di atti vandalici, ma brutali risse, pestaggi, rapine e addirittura sequestri.

La domanda che sorge spontanea è: perché tutta questa violenza?
La rappresentazione dei media ha evidenziato il fenomeno di crescente violenza che ha accompagnato la diffusione delle baby gang facilitandone l’etichettatura come semplici criminali. Ma quello che viene spesso tralasciato sono le motivazioni ed i background sociali/familiari che possono aver portato i ragazzi a finire in questi gruppi, in un cui prevale una sorta di codice d’onore in cui devi essere un criminale per farti rispettare: è solo così che potrai essere “all’altezza del gruppo”.

Ma cosa si nasconde davvero dietro questa facciata?

L’Università Cattolica di Milano, attraverso uno studio realizzato dal centro Transcrime, ha dimostrato che il fenomeno delle baby gang è in forte aumento: sono gruppi di giovani o giovanissimi, per lo più di età compresa tra i 15 e i 17 anni, che compiono atti vandalici recando danno soprattutto ai loro coetanei; sempre secondo questo studio non sempre si tratta di gruppi criminali ma di gruppi improvvisati da ragazzini, provenienti anche da famiglie benestanti, che vivono un disagio esistenziale e periodi di smarrimento, che affrontano prendendo come esempio modelli sbagliati.
Sembra che seguire questi “modelli” sia l’unica via d’uscita, l’unica alternativa in una società di cui non si sentono parte e dalla quale si sentono abbandonati.

Dall’altra parte, abbiamo anche dei giovani spaventati dal futuro per il clima di incertezza in cui viviamo a causa della pandemia e della guerra. Questo, di conseguenza, porta quelli di loro che vivono situazioni più precarie e in cui sono meno incoraggiati, ad abbandonarsi a strade “facili” per non dover affrontare il rischio di fallire: molti di loro abbandonano gli studi pensando di non essere all’altezza oppure non cercano lavoro perché sottovalutano le proprie potenzialità.

Sono giunta alla conclusione che la società abbia perlopiù una visione negativa e superficiale dei ragazzi; piuttosto che creare dei canali di comunicazione e cercare di vedere la realtà con i loro occhi per capire e vincere le sfide che si trovano davanti, per aiutarli ad elaborare ed esprimere i propri sentimenti, si tende ad addossare tutta la responsabilità a loro di quel che ne è del loro futuro. Cosa che risulta più semplice che dover ammettere la responsabilità che gli adulti hanno nei confronti della crescita e della formazione dei giovani.

“MOLTI OGGI PARLANO DEI GIOVANI; MA NON MOLTI, CI PARE, PARLANO AI GIOVANI”. 
(PAPA GIOVANNI XXIII)

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In bilico tra due mondi

Sin da piccola vivo in bilico “tra due mondi” culturali completamente diversi: quello delle mie origini in cui c’è la mia famiglia, le tradizioni e i valori islamici che mi…

Sin da piccola vivo in bilico “tra due mondi” culturali completamente diversi: quello delle mie origini in cui c’è la mia famiglia, le tradizioni e i valori islamici che mi sono stati insegnati dalla nascita; e quello italiano, in cui sono nata e cresciuta, in cui ci sono i miei amici e la cultura del Paese che ha accolto i miei genitori.

Interfacciarmi tra questi due mondi, soprattutto nel periodo adolescenziale, mi ha portata a vivere una grande crisi d’identità in cui ho iniziato a chiedermi: “chi sono io?”.

Per anni mi sono chiesta se sarebbe stato più facile nascere e crescere in Marocco oppure nascere in Italia da genitori italiani, mi sono chiesta cosa fosse giusto o sbagliato: ciò che era “normale” per una cultura era strano o non accettabile per l’altra, e viceversa; ho iniziato a mettere in discussione tutta la mia vita, partendo da me.

Per le persone sono straniera solo per il mio nome, per i miei tratti somatici e per il velo che porto. Camminare tra gli sguardi diffidenti e giudicanti delle persone, con il tempo, ha sviluppato in me la costante paura di non essere accettata e di conseguenza mi ha fatta sentire sbagliata e fuori luogo.

Come posso sentirmi un’estranea a casa mia, nel Paese che mi ha vista nascere e crescere?

Nonostante le mille domande e i mille dubbi che mi hanno assalita nel corso degli anni, sono riuscita a trovare la mia strada senza rinunciare a nessuno dei miei due mondi, senza aver più paura degli sguardi delle persone.
Ho capito che, noi figli di seconda generazione siamo il bellissimo risultato di un mix di culture, diverse ed ognuna unica a modo suo e non dobbiamo necessariamente schierarci da una parte per essere accettati.

Non siamo noi ad essere sbagliati.
È sbagliato chi non comprende, è sbagliato di giudica, è sbagliato chi non apprezza la nostra unicità.


			
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